Tra insulti a Boateng e Ibarbo ci siamo ricordati come sia il calcio in Italia
È stato un weekend allucinante, tra insulti razzisti a Boateng e Ibarbo e tra isterie collettive.
A Busto Arsizio nell’amichevole tra Milan e Propatria un gruppo di tifosi insultava i coloured del Milan. Boateng, in un istinto di rabbia, ha preso la palla e l’ha tirata contro i quattro sfigati in tribuna. Partita finita, era amichevole. I commenti si sono sprecati, così come i ricorsi storici, compreso quello di Eto’o, insultato qualche anno fa a Cagliari (ma non ditelo troppo, che molti non li hanno sentiti).
Passano pochi giorni e succede lo stesso all’Olimpico ai danni del giocatore di Cagliari Ibarbo da parte di alcuni ultrà della Lazio. Ci vuole coraggio a tifare i biancoazzurri, una squadra che ha (avuto) giocatori di colore, zingari e di qualsiasi etnia compreso Aaron Winter, e poi fischiare Ibarbo. Ma a Roma come a Cagliari, Milano o Busto Arsizio gli idioti non hanno colore né provincia. Sono un fenomeno generale, alimentato da tanti anche inconsapevolmente.
Il problema è poi pensare che c’è chi dice “che sia normalissimo” e che i giocatori “sono pagati per prendersi insulti”. In poche parole tifare contro è una pratica accettata, ad ogni livello, “fattore campo” si direbbe, comprese le partite delle giovanili dove i genitori si travestono in supporters e insultano ragazzini con maglie diverse da quelle dei propri figli.
Ecco l’isteria del calcio, ad ogni livello: dopo la sconfitta del Cagliari contro la Lazio – viziata da evidenti errori arbitrali – ho letto la solita selva di commenti violenti e aggressivi. Complotto, rivoluzione, ritira la squadra, assurdo, ce l’hanno con noi. Il calcio è uno sfogo. Se vinci sei il migliore, se perdi è un complotto.
Mi sorprende il tasso di aggressività verbale dei tifosi che stanno assumendo le sembianze di talebani. Minaccioso e intransigente con chi non rispetta il pensiero unico, con chi da cagliaritano non tifa Cagliari (c’è una legge scritta?), non sentono più ragioni.
Ricordarsi che è solo un gioco, una passione, non una questione ideologica né tanto meno un motivo valido per tirare fuori storie di autonomia sarda e attaccamento alla terra (che magari neanche si conoscono) dopo che ci si è nutriti di tonnellate di globalizzazione.
È sempre uno sport, ma molti, troppi, se lo sono dimenticato. E finché sono ragazzotti e gaggetti, ignoranti e fuori dal mondo, possiamo (forse, dico forse) capirlo. Quando a dimenticarselo solo genitori, insegnanti, allenatori, giornalisti e persone che giudici “con sale in zucca” dovrebbero dotarsi di misura e buon educazione, i danni sono dietro l’angolo.
Allora ti spieghi tutto, il razzismo, gli insulti negli stadi e come crescono i giovani.