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Sarajevo, tra freddo, silenzio e ferite di guerra

“Sarajevo, perché?” È la domanda che molti mi hanno fatto quando ho deciso di visitarla. Complice il mio compleanno e i suggerimenti del mio caro amico Giuseppe Marcialis, sempre pronto a propormi destinazioni che risuonano con le mie tensioni ideali ed emotive, ho deciso di partire.

Non avevo mai pensato a Sarajevo come a una città turistica. Mi attirava la sua complessità, il fascino enigmatico del mondo balcanico, la possibilità di immergermi in una realtà fatta di storie e non di cartoline.

Al mio arrivo, il primo impatto è stato quello di una città fredda, lenta, ancora segnata dalla guerra. Le cicatrici sono ovunque: nei muri crivellati dai proiettili, nei ruderi lasciati a metà, negli occhi delle persone. Eppure, ho sentito subito un’accoglienza sincera, una gentilezza quasi disarmante, unita a una curiosità autentica verso chi arriva da fuori.

Perdersi nel freddo e nel silenzio

Mi sono concesso il lusso di perdermi. Il freddo era pungente, tagliente, ma mi ha spinto a rallentare. Ho ascoltato il silenzio, rotto solo dal richiamo del muezzin che elevava la sua preghiera. Quel suono mi scuoteva, mi riportava alla realtà, ricordandomi quanto fosse diverso e al tempo stesso simile il mondo che stavo esplorando.

Sarajevo porta ancora le ferite del lungo assedio dal 1992 al 1996. Quattro anni di isolamento, durante i quali la città è stata sotto il tiro costante dei cecchini appostati sulle colline. Ho camminato lungo quello che un tempo era il Viale dei Cecchini, oggi trafficato e pieno di vita. Pensare che, per anni, attraversare una strada significasse rischiare la vita è stato straniante.

Le immagini che avevo visto online mi tornavano in mente: persone che correvano, cercando di prevedere il prossimo sparo. I palazzi, ancora crivellati dai proiettili, sembrano custodire la memoria di quei giorni, come a voler dire: “Non dimentichiamo.”

Il Cuore Storico: Baščaršija

Il mio giro è iniziato da Baščaršija, il cuore storico della città. Le strade strette, le botteghe artigianali, le moschee che si alzano discrete: tutto sembra parlare di una Sarajevo che non ti aspetti. Mi sono fermato accanto alla fontana Sebilj, circondata dai piccioni. Ho comprato un succo di melagrana da un venditore ambulante e, sorseggiandolo, ho osservato la vita intorno a me: anziani che chiacchierano sulle panchine, bambini che rincorrono i piccioni, uomini che si recavano nella moschea.


Ho passato tempo a osservare le donne della città. Anziane avvolte in sciarpe pesanti, donne col velo con un’aria di dignità che mi ha colpito; giovani con uno sguardo sereno, spesso dietro ai banconi dei caffè o delle botteghe, con sorrisi che trasmettevano forza e resilienza.

Il Tunnel della Speranza

Fuori città, ho visitato il Tunnel della Speranza (Tunel spasa), un passaggio scavato a mano per collegare Sarajevo assediata al mondo esterno. L’ingresso, in Džemala Bijedića 19, ospita un piccolo museo che racconta la storia del tunnel con video e oggetti originali. Camminare in quel breve tratto ancora accessibile è stato come sentire il peso di chi, in quel buio, ha trovato la forza di resistere.

Il Gusto di Sarajevo

Mangiare a Sarajevo è immergersi nella sua cultura. Ho assaggiato il ćevapi, servito con pane caldo, cipolle crude e una cucchiaiata di kajmak: un piatto semplice, ma incredibilmente soddisfacente. Nei pekara(forni), ho trovato il burek, una spirale di pasta sfoglia ripiena di carne, che ho mangiato passeggiando mentre il freddo mi pizzicava le mani. Era confortante, perfetto per una sera d’inverno.

In un caffè accogliente ho provato il caffè bosniaco, servito nella tradizionale džezva. Si versa lentamente nella tazza, evitando la posa. Accompagnato da un baklava dolcissimo, è il modo ideale per scaldarti e prenderti una pausa.

 

Le Rose di Sarajevo

Anche il suolo parla. Passeggiando per le strade, ci sono piccoli crateri lasciati dalle bombe, riempiti con resina rossa. Si chiamano Rose di Sarajevo. Sono segni indelebili, memoriali spontanei che ricordano le vite perse. Camminare sopra di esse è un’esperienza che ti costringe a rallentare, a riflettere.

I ponti sul fiume Miljacka

Sarajevo è una città attraversata da ponti, ciascuno con una storia. Il Latinski Most (Ponte Latino) è il più noto, famoso per essere stato il luogo in cui l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e sua moglie Sofia furono assassinati nel 1914, segnando l’inizio della Prima Guerra Mondiale. È un ponte semplice, di pietra, ma ricco di significato.

C’è poi il Ponte Vrbanja, teatro di scontri e tragedie durante la guerra. Qui furono uccisi Admira e Boško, i “Romeo e Giulietta di Sarajevo”, simbolo di un amore che resisteva anche alla follia del conflitto. Attraversare questi ponti, con il fiume Miljacka che scorre lento sotto di essi, è come passare da un tempo all’altro. Lungo le sue rive, le case e i palazzi raccontano storie di decadenza e rinascita.

La stazione dei treni

Uno dei luoghi più surreali che ho visitato è stata la stazione dei treni. Mi ci sono ritrovato per caso, in attesa di un autobus per Mostar. Sembrava un pezzo degli anni ’80 lasciato intatto, un luogo sospeso. All’interno, bar vecchi di più stagioni, un grande muro con uno slogan datato di Coca-Cola, una biglietteria chiusa e qualche sparuto viaggiatore che sembrava più perso che in attesa. Non c’erano treni in arrivo né in partenza. L’atmosfera era quella di un non-luogo, un luogo dimenticato dal tempo.

La notte

Di notte, Sarajevo si acquieta. Il freddo pungente avvolge la città come una coperta ruvida. Non c’è caos, non c’è fretta. C’è solo il respiro della città, che ti invita a fermarti, a immaginare le vite che l’hanno attraversata.

Non è stato un viaggio semplice, né leggero, ma Sarajevo mi ha insegnato che nelle cicatrici si trova spesso la vera bellezza e che il mondo Balcanico, per quanto vicino geograficamente, è un universo tutto da scoprire e da capire.

That’s all fuck!

Il Viaggio che sa di Cammino sta per finire.

Ho ancora un po’ di tempo per me come le ultime Brooklin incartate d’argento che spuntavano dalle tasche dei Levi’s prima della scritta minacciosa BENVENUTI A CAGLIARI.

La stanchezza affiora. Le gambe – per fortuna – resistono bene, la testa pure. Aveva ragione è quell’amico che fa il verso al venerdì per dirmi “le gambe sono tutto!”.

Le storie sul quaderno sono avanzate. Ho fatto foto, pochssimi video. Ho ascoltato poca musica seguendo più i rumori e i silenzi. Ho corso un pochino, quanto bastava per dire che l’ho fatto. Ho camminato molto. Credo che in totale abbia accumulato non meno di cinquanta chilometri, tanti con lo zaino di oltre dieci chili. Mi accorgo che posso togliere ancora qualcosa per renderlo più leggero. Una maglia in meno e forse il computer. I libri letti con l’ebook non sanno di nulla, sono sesso senza coito.

Ho meditato ogni giorno provando a cogliere l’energia dei luoghi, il genius loci. In alcuni casi mi son immerso, in altri ho dovuto aspettare, in altri mi son sentito estraneo. Ho imparato qualche parola e frase di castigliano che non avevo. Ho letto in catalani. Ho visto e ballato la sardana. Ho fatto tante gaffe. Non ho capito cosa mi dicevano gli altri e ho risposto YES. Ho incrociato storie di artisti e persone che voglio approfondire. Ho letto un po’di Pessoa e Proust, faticosi e intensi che meritano attenzione e cura. Potevo mangiare meglio, questo è vero. Ho riaffermato il mio amore per i treni, specie la notte, e la salvezza dei bus.

El prat è immenso, ma senza poesia. Le vetrine patinate, i caffè con logo studiato, le cose unitili del duty free.

Due persone urlano. Riconosco la parlata. “Lo vedi che imbarcano là?!”. Nella moltitudine dell’aeroporto sono protagonisti della scena. Sono sulla strada giusta per il gate. Incontro un amico che non vedevo da tempo immemorabile. Anche lui è innamorato di questo paese e ha la fidanzata spagnola. Chiacchieriamo e raccontiamo un po’ di esperienze e viaggi, paesi da vedere e scene da viaggiatori. Tipo che quando l’aereo atterra nella nostra città tutti si alzano in piedi prima che il comandante tolga l’indicazione delle cinture. Sorridiamo anche perché l’aereo per Cagliari sia sempre parcheggiato in fondo alle piste.

Caos allla partenza. Bagagli che volano. Davanti a me un sardo dice a uno spagnolo che ha lagato per avere lo zaino in cappelliera, ma lo spagnolo gli chiede di metterlo sotto che altrimenti non sta il suo trolley. Alla fine stanno tutti e due. Le hostess sono le più pazienti e sorridenti che abbia visto.

In volo vicino a me c’è una coppia spagnola che legge un portentoso volume turistico sulla Sardegna. Si sofferma sul Sulcis. Confermo l’ottima scelta con una frasettina che mi preparo da Google traduttore.

Atterriamo. Il venticello caldo e umido della Sardegna. La prima scala mobile non funziona. Cartelloni sardi. Sardo buono, sardo bello, compra sardo. Non rubare la sabbia ched’ è peccato. Lo sguardo degli agenti della finanza. Niente sapone nei bagni. “Ha cambio?” solita scena al bar con quello sguardo di traverso che solo noi, solo noi, canterebbe Cutugno.

Stazione di Elmas Aeroporto. L’obliteratrice non funziona. I turisti hanno timore di essere multati. Un anziano francese fa la foto alla rotaia e sorride. Nessuno a cui chiedere. Avremo sbagliato posto?

Il treno ha la temperatura di un discount d’estate. Una voce squillante ricorda gli abbonamenti pendolari. Il controllore ha un codino, un ciuffo bianco e doppio orecchino. Controlla con tono gentile. Tempi che cambiano.

Niente fermata a Santa Gilla, che poi mi chiedo ancora a cosa serva. Domande senza risposta.

Stazione di Cagliari, corsa finita.

Piazza Matteotti. Transenne. Cacca di cane. Panino mangiato a metà. Sguardi torvi. Transenne. Solo i turisti hanno sguardi curiosi e pieni di fiducia.

Poi ci sono io, viaggiatore a casa mia. Che poi casa mia è un concetto pericoloso, prevede un proprietà e la presenza di un “altro” che non sarebbe a casa.

Fine della poesia. La più grande missione è trovarla ancora, in una terra bella e violentata, che come me ha paura del mare e di tutto quello che c’è fuori. Quella poesia, dove si è nascosta? Questo bel venticello da qualche parte ci porterà.

Da Siviglia in autobus verso Sud, destinazione Tarifa

Da Siviglia in autobus destinazione Tarifa ci vogliono ben tre ore. Dovrei farcela. Poi ci sono i fuori programma. L’aereo da Cagliari tarda mezz’ora. Problemi di autorizzazioni al decollo, spiega il comandante con un forte accento inglese.

Prima di raggiungere la aiuola di sosta qualcuno si alza e viene rimproverato al microfono da una hostess. Stesso rimprovero per un gruppo di turisti che sosta in pista in attesa forse di altri compagni viaggiatori. La grande scritta SEVILLA e un sole secco e deciso mi abbracciano quando arrivo nel sud della Spagna. 

La prima cosa quando arrivo in un altro paese è allontanarmi dai connazionali: sì, capisco che forse per alcuni sembrerà strano, ma non voglio più sentire una parola di italiano e abbandonarmi al luogo.

Il tempo è poco, ho il bus alle 14 in punto, meno di un’ora per andare in stazione, una follia se dovessi utilizzare il bus che collega l’aerostazione con il centro città. Manovro con il cellulare: la scelta è tra Cabify, che non ha mai usato, e Uber. Che bellissima invenzione è Uber e per fortuna in Spagna ancora resiste. Venti euro per la stazione Plaza Das Armas. Il budget va subito a farsi benedire, ma non ho altre scelte. Perderei il biglietto del bus e non so.

Il mio autista si chiama Pedro Jesus e arriva con una corolla nera. Lo seguo impaziente dall’applicazione. Le indicazioni dicono di andare a sinistra, e trovare il parcheggio. In realtà lui mi aspetta al parcheggio davanti. Per fortuna scrive. Lo ritrovo nella selva di auto che aspettano altri clienti. Forse Uber non può avvicinarsi per un qualche patto con i tassisti. Controllo le targhe, eccola!

“Nìcola!”, mi grida qualcuno. Sbuca da lontano l’autista con un sorriso e mi aiuta subito per lo zaino. Viaggio leggero, senza impedimenti, da un po’ di tempo. Lo zaino è l’essenziale e viaggio dopo viaggio ti misuri sulla ricerca del minor peso. Ad ogni viaggio posso ancora togliere qualcosa!

Siviglia è come me la ricordo. Bianca, sontuosa, soleggiata. La macchina costeggia il Casco Antigo, mancano dieci minuti alla stazione e per puro scrupolo riguardo il biglietto del bus. Sai quelle volte che vuoi essere sicurissimo di non sbagliare? E infatti, ecco l’errore: non parto da Plaza das Armas, la stazione grande, il terminal di città, ma da Prado San Sebastian! E dov’è?  Quasi mi vergogno di dirlo al tassista, ma poi trovo coraggio per dire che ho sbagliato, in un mezzo italiano, spagnolo e inglese figlio della fretta e della paura. Lui mi capisce e non so che accada in questi momenti, specie con Uber e con una prenotazione. 

Siviglia ha una tradizione di stazioni sbagliate con me molto interessante: tre anni fa per poco non perdevo il treno sbagliando la stazione. Là il tassista fece davvero miracoli violando almeno una decina di articoli del codice della strada e facendomi salire sul treno cinque minuti prima. O forse il tempo si fermò per me! 

Pedro Jesus mi chiede di ricambiare la prenotazione dall’applicazione, spenderò 2 euro in più. La stazione sembrava più vicina ma è quasi sul fiume Stura. Seguo il percorso sul cellulare, ansioso: arriverò otto minuti prima della partenza. Ne mancano diciotto, ma non si sa come a un certo punto Google Map si aggiorna e diventano cinque. Sospiro di sollievo. Tutto quadra! Un colpo fortunato.  

La stazione di San Sebastian, incastrata in un labirinto di strade, è piccola. Partono e arrivano i bus da tutte le province dell’Andalusia – Cadice, Cordoba, Jaen, Almeria, Malaga e Granada – e dalle principali cittá spagnole. Che bellissima invenzione è Uber e per fortuna in Spagna ancora resiste.Stazione di Prado San Sebastian, Siviglia

I bus in Spagna collegano tutta la penisola con un servizio davvero efficiente, nulla a che vedere con le sgangherate mobilità di casa nostra. Vengono puliti anche durante i tragitti, hanno connessione wifi – non sempre efficiente, dico il vero! – e son comodissimi. I tempi non son di certo quelli del treno, che comunque non vi fa arrivare ovunque in Spagna, ci sono ampie zone dove di rotaie non c’è nemmeno l’ombra, ma c’è la bellezza di una ulteriore lentezza, di vedere i paesi con un occhio più spensierato e senza spendere troppo. Mezza Spagna l’ho girata così!
Chiedo a un autista della compagnia Omes vicino al bus con la scritta Algeciras se passi anche per Tarifa. Mi dice che non è il suo mezzo e poi aggiunge “unos nueve!” indicandomi poi la piattaforma 19. Il bus non c’è ancora. Ho tempo per comprare una scorta d’acqua per riempire la borraccia e andare in una toilette dal sapore franchista. 

La stazione ha colori gialli e bianco, una serie di panchine al centro e una ventina di piazzuole di sosta. Alla partenza c’è una famiglia araba, una coppa di tedeschi, e ancora un signore che legge un giornale da cui non si stacca per buona parte del tragitto e altre donne che viaggiano da sole (una di queste scoprirò essere pure sarda!). Altri arrivano un attimo prima della partenza, ottima tempistica! Io non ce la farei!

L’autista controlla la mia prenotazione online, mi guarda e mi dà l’ok per salire. Prima di partire e salire urla in stazione “Algeciras” come ultima chiamata. Una signora si avvicina e cantilena che prenderà il prossimo. L’autista le risponde di fare come vuole e la salute prima di chiudere la portina con lo sbuffo.

Usciti dalla città affrontiamo chilometri e chilometri di campi e terre seminate. Ci sono campi di girasole, canna da zucchero, fichi e file di alberi lontani. Amo i tempi lunghi dei viaggi, mi fanno fare ordine nella testa. Mi chiedo sempre se debba lavorare, scrivere o semplicemente godermi il paesaggio attorno. Nel volo aereo ho rimesso ordine agli impegni di questo periodo, ho pensato, ho finito un libro da leggere, ho dato senso ad alcune cose che non si smuovevano. E anche ora che sono in pullman, amo quella leggerezza che mi permette di stare così, solo con i miei pensieri, senza nessuna altra distrazione. Non devo far altro che aspettare l’arrivo. Saranno ben tre ore, c’è una persona che guida per me, un mezzo che dolcemente scivola su una strada, nessuno che mi aspetti e nessun appuntamento in vista con lo stress del dovermi spostare in auto. 

Ripenso alle uscite ogni giorno, al traffico che da quando ho vissuto a Milano odio sempre di più – quello di Cagliari è roba da dilettanti, ammettiamolo – allo stress di dover conquistare un posto, di dover stare attenti agli inganni della circolazione, alla corsa senza fine degli altri. La macchina è uno dei fattori di maggior stress, insieme ai social e a whatsapp!

Da tanti anni ho provato a mettere una marcia più bassa. Sono consapevole che non sia possibile più correre. Mi godo il viaggio come impegno di lentezza e consapevolezza, come esercizio di gioia.  In cuffia arriva un giro di note finale dei Gotan project con Diferente, mi prende un momento di emozione verso il terzo minuto tanto che mi scendono due lacrime. Quel remix di malinconia, nostalgia, tristezza felicità si insinua nella pelle. Saudade, che ti prende e ti sorprende quando meno te lo aspetti. Camminando in un lungomare, in un tramonto o in un viaggio, magari anche semplicemente sotto casa. E allora ripensi al tempo che passa criminale, ai ricordi che svaniscono, a dove sei, la bellezza diventa un tutt’uno che ti obbliga a spendere bene il tempo, a non perdere un attimo della vita.

In autobus c’è una lieve musica arabeggiante. Il paesaggio non cambia, scivoliamo leggeri verso Sud. Ogni tanto si vede il mare e piccoli paesini. La prima sosta è Puerto Real, la stazione è una fermata davanti a un baretto di nome Nakalera. C’è uno spazzino con un gilet giallo che taglia una tortilla di patate con una birra in lattina rossa e tre uomini che si contendono una partita a carte con una bottiglia, serviti da una donna con pantaloni cachi. Non ho capito bene se qualcuno scenda o salga, riprendiamo la strada e siamo due passi da una grossa laguna e in fondo industrie e gru mostruose. E’ Cadice, non posso dimenticare mai il suo profilo. Eppure dietro quella civiltà industriale e allarmante, quasi fosse una novella Indastria che fuoriesce dalla laguna, si nasconde una città fantastica.
Cambio la playlist e punto sul NeoTango dove c’è un pezzo di un Bajofondo. Gli associo ai Gotan Project ma sono una formazione musicale di musicisti argentini e uruguagi. Si definiscono “collettivo di compositori, cantanti ed artisti”. Anche loro fanno questo delizioso elettrotango con quella carezza malinconica. Una loro canzone, Pa’ Bailar, diventa la colonna sonora per decine di chilometri. Hai presente quando un pezzo ti entra nella testa? Spensierata e divertente, un po’ scanzonata con questo lead strano che penetra le orecchie. 

Presa la A48 ci dirigiamo verso Chiclana de la Frontera, allontanandoci di nuovo dallo specchio d’acqua. A San Fernando la poesia viene annientata tra centri commerciali e stabilimenti, distributori e supermercati troppo grandi, cartelloni pubblicitari e concessionarie d’auto. Prendiamo direzione per Algesiras e Malaga, per tornare a costeggiare l’oceano che tra poco sarà Mar Mediterraneo.Paesi della Spagna

A Chiclana de la frontera scendono una decina di persone. Non so perché ma le conto. C’è una donna con un abito nero che ha un grosso fagotto e si fa aiutare da un giovane e un ragazzo che sale, mostra una tessera, ma viene rifiutato dall’autista. Così va via senza nessuna discussione. Vicino alla fermata, c’è un parchetto con bimbi troppo grandi che si arrapicano in scivoli e altalene, una donna che tiene un quaderno e studia con la figlia che ripete qualcosa guardando in alto, come a chiedere al cielo i suggerimenti. Ridono, insieme. Forse starà recitando una poesia? Un’altra donna ha un carrello della spesa che sembra un trolley gigante che spinge con estrema lentezza fermandosi ad asciugare il volto. Attorno è un insieme di piccole palazzine che compongono un quartiere popolare fatto di spazi ampi e zone dove incontrarsi e passare le serate. La tipica architettura urbanistica delle città spagnole che vuol dare occasioni di socializzazione alle persone.

Usciamo dal paesino e il paesaggio è sempre più arso dal sole come la destinazione diventa Sud. Se non sapessi di essere in Spagna potrei dire il Campidano in Sardegna, stessi colori, stesse visioni. Inizio a litigare con il cellulare che è appeso alla presa USB sopra il sedile. Cade più volte ma per fortuna non si fa nulla. La mente brucia di pensieri disordinati più dei geometrici campi, ognuno con le sue casette bianche, le finestre azzurre, capaci di resistere al sole di qualsiasi stagione. La scritta Burger King mi riporta al mondo moderno, nonostante un baretto dimenticato da Dio con una scritta azzurra su sfondo bianco La Vega e la sua offerta: si vedono miele, panini, spremute e colazioni. Non capisco l’associazione dei prodotti ma son certo che quel cliente solitario con un capello nero abbia trovato la sua birra giusta.

Tutto è poesia finché non ti imbatti nelle zone industriali fuori dai paesi, fatti di capannoni e di fabbriche, di costruzioni finite o a metà, residence perfetti che aspettano frotte di rumorosi turisti con annessi campi di Padel. Allora le forme bianche delle belle casette di campagna o che si affacciano sul mare diventano corpi senz’anima. Certo, l’economia, il lavoro, la modernità. Tutto questo fa parte del mondo che viviamo. Ma la poesia è altra cosa.

  “Conil, Conil!” urla l’autista, “dieci minuti per andare al bar o in bagno”. Scendono in tanti, non so se per andare via o rilassarsi. Due ore e mezzo di viaggio non son poche! La stazione di Conil è un grande capannone con quattro posti pullman, un baretto e quattro panchine. Un ragazzo sta aspettando qualcuno. Controlla e ricontrolla il cellulare e si guarda attorno: è  una ragazza. Quando si vedono l’abbraccio è infinito, dura troppo per essere un semplice ritorno. Due ragazze si raccontano segreti e storie con ampie nuvole di fumo davanti, inginocchiate in un blocco di marmo e un pacco di patatine da sgranocchiare. Due donne, non più giovanissime, sgranchiscono le gambe con movimenti circolatori coordinati. 

Quando ripartiamo ritroviamo ancora una distesa di campi stavolta animata dal moto circolatori delle pale eoliche. Perdo il conto di quante ce ne siano e quando la strada si fa una lingua d’asfalto lunghissima, lo spettacolo di questi marchingegni meccanici diventa  allarmante. Un gruppo di mucche prendono il sole chiedendosi il motivo per cui l’uomo violenti così il paesaggio. Anche qui è la civiltà che chiama e guai a discutere su questi modelli di sviluppo, potresti essere additato di arretratezza e anticonformismo radicalchic.

Finalmente mare, una lingua di sabbia infinita e tanti kite surf. Ci avviciniamo a Tarifa. Un’auto fa un sorpasso al limite del codice (penale) tanto che l’autista urla un violento “coglione!”. Qualche minuto in più e in meno e sarebbe stato uno scontro frontale, e non credo con conseguenze leggere. Ci pensate a quanto la vita sia un insieme di centimetri e di minuti? Spesso per pochissimo tutto può cambiare. Si chiamano coincidenze, sono quelle del destino. Essere nel posto giusto, al momento giusto. E magari vederne concretizzate altre: un incontro casuale figlio di un ritardo, una persona conosciuta incrociata in una metropoli, un volo perso che ti salva la vita. Oppure soccombere per quel caso del destino. 

La sfilata di colorati negozi per surfisti con scritte e bandiere diverse, prima ancora di uno sguardo all’orologio, mi dice che siamo arrivati. Finalmente! Tarifa, la stazione è un box, troppo piccolo per essere vero. Il sole colpisce ancora ma un vento fresco schiaffeggia la faccia. I ricordi affiorano, quanto tempo fa son passato? Avevo scritto un altro post! Una donna che viaggiava con me si avvicina: “Sei sardo? Si sente!”. Ha ascoltato una mia chiamata con mio fratello. Avevo fatto di tutto per non disturbare gli altri. Non ci son riuscito.

Un giorno a Lubiana, la tranquilla capitale Europa

Lubiana era una di quelle città che mi girava attorno da tempo ma mai avevo preso in considerazione. Lo ammetto. Sapevo molto poco, così come so molto poco di questa zona di mondo. Ma, come sempre mi accade, una giornata e mezzo – inutile forse per capire e vedere – ha aperto le porte alla voglia di tornarci.

Alla fine, complice il caro amico Giuseppe Marcialis, ho trovato anche la soluzione ai miei dubbi esistenziali: oltre la Spagna, oltre il Portogallo amo l’Est europeo, le capitali dei paesi ex comunisti – sì, lo so, la ex Jugoslavia di Tito ha una storia diversa – mi affascinano con quel loro mito, quell’alone di mistero.

Mi sono reso conto che tutto questo angolo di mondo – ho visto già Tirana e Belgrado – non assomiglia molto all’Europa centrale, ma ha una propria caratura, dei segni distintivi che lo rendono speciale. Come ogni destinazione.

Lubiana è una delle capitali che lo dimostra. Una delle capitali più piccole ma in quella dimensione si racchiude molta bellezza semplice. Del resto, significa “amata”, e non ci vuole molto per cadere sotto il suo fascino. Non sembrerebbe ma ha 300.000 abitanti, che ci sono più spazi verdi in città che case, un fiume al centro, quasi metà della superficie della città è coperta da foreste native.

Lasciata Trieste ci vuole un’ora e mezza per aprirsi al nuovo mondo. Autostrade veloci, neve, paesi che appaiono e scompaiono. Slovenia! Quando arrivo è già sera e posso immaginarmi solo lo spettacolo che mi aspetterà domani. Mi godo il presente, Lubiana nel suo abito luccicante. La poca gente in giro si affretta a rincasare o nascondersi in fumosi pub, i mucchi della neve ai bordi strada ricordano di una copiosa sventagliata bianca di poco tempo fa, le luci e i profumi mi accolgono anche camminando da solo nel freddo.

Alloggio a due passi dal fiume verde smeraldo Ljubljanica, con i suoi 17 ponti incrociati, tra cui il Triplo ponte di Plečnik e uno dedicato al simbolo della città: il drago. Lo troverò un po’ ovunque! La mia camera è un’accogliente, una mansardina ergonomica con vista sui tetti della città da cui si accede con una scala a chiocciola doppia.

Lascio lo zaino in stanza, accendo il termosifone al grado 5  per riscaldarla bene – ebbene sì, questo ammorbante calore mi entusiasma! – e inizio il mio primo giro di perlustrazione. Sono le sette e il centro storico si rivela una piacevole ragnatela di strade acciottolate ed edifici colorati coperte da tetti di tegole in terracotta. 

Alcune chiese svettano, e un castello arroccato su una collina ti guarda dall’alto quasi controllasse i miei passi. Chi mi segue sa che adoro le città con il mare vicno ma anche il fiume ha sempre il suo perchè. E il lungofiume si rivela un luogo ricco di vita e opportunità. Qui ci sono i bar, i pub, i piccoli ritrovi dove sorseggiare una tazza di caffè o una pinta di birra chiara.

Voglio subito buttarmi dentro qualche taverna dal sapore balcanico. Mi stuzzica questo Sarajevo 84. Scese le scale, con quella curiosità tipica del viaggiatore alla prima sera, la sala è piena di giornali d’epoca disposti nei lati del soffitto e un curioso cartello che indica le città vicine (Bihac, Banca Luka, Tuzla, per esempio) Un sorriso gentile, una parola di italiano e mi sento già a casa e mi accomodo in un tavolo che domina la sala, con una familiare tovaglia bianco rossa.

Ordino la salsiccia carniola che arriva con una copiosa pagnottella fresca e due salsine. Ancora
la birra Pivo, rigorosamente mezzo litro, e alla fine una grappa Domace (che significa domestica) e un dolce di noci e miele e ancora un caffè turco.

Quando vado via il freddo si è fatto intenso e una camminata liberatoria tra il silenzio e i pochi fantasmi che ancora girano per Lubiana, figlia anche dei fumi dell’alcool, mi anticipa come sarà la giornata di domani.

I raggi di sole del bagno mi svegliano presto. Il cielo è chiaro e i rumori della città sono piacevoli. Apro la finestra basculante per rinfrescare e la nuova città si presenta con l’abito del giorno! Piccoli edifici dai colori pastello accompagnano il dolce scorrere del fiume e il Castello, da lassù, ha contorni nitidi. 

Faccio colazione vicino al ponte dei lucchetti – a centinaia sono agganciati nei vari interstizi del parapetto di ferro – che in verità si chiama Ponte dei Macellai. Un nome non proprio incoraggiante. Il motivo è che è al centro dei banchi dei macellai del vicino mercato. Ci son statue dello scultore sloveno Jakov Brdar, creature deformate sulle balaustre del ponte. una grande statua di Prometeo, mentre le miniature sul recinto narrano con malizia gli eventi nei capanni. Il contrasto tra le sculture inquietanti di Brdar e i “lucchetti dell’amore” è effettivamente curioso.

Un toast, un cappuccino e una spremuta al bar Lockal mentre intorno la vita comincia. C’è un gruppo di studenti, poi ancora delle donne che ridono sguaiatamente davanti a un fumante cappuccino. Decido di salire fin al castello, evitando la funivia. Ma prima, di passaggio, c’è il mercatino all’aperto. Una bella mostra di verdure, frutta, pane, formaggi, ricotte fanno il paio con souvenir, abbigliamento troppo pesante per i miei gusti e piccoli oggetti regalo, come pietre luccicanti e gemme, sistemate con dovizia da Dora, così pare si chiami, sulla bancherella a bordo strada. 

La salita per il Castello è a vicina. Niente funicolare. Mi chiedo quale sforzo immane ci sia da compiere, perchè il primo tratto ha una bella pendenza, alla fine conterò meno di dieci minuti per godermi il panorama, fiatone e un po’ di esercizio. Con me ci sono altri due ragazzi e una ragazza bionda che porta in giro un cane tascabile. 

La vista è interessante, nonostante il freddo dell’altura. C’è un cocktail bar, chiuso, e delle panchine da cui osservare Lubiana. Immagino come sarebbe farci una festa con una consolle diretta sulla città!

Quando ridiscendo, ho tempo per una bella camminata sul vialone della città vecchia, che si chiama Stari Tra, prolungamento di Mestrni tra i rintocchi della Cattedrale di San Nicola.

Passata qualche banale marca da centro commerciale, che puoi trovare ovunque, i negozietti e le botteghe sono uno sfoggio di bambole, maglioni, piccole composizioni floreali, quadri e poi ancora piccole taverne dove gustare la Knanjska Klobasa, la salsiccia di carne tritata.

In un altro negozio ci sono riproduzioni in legno degli insetti con le facce buffe: un’ape, un grillo. Vicino, delle borse con le forme più curiose: un telefono, una chitarra, una lanterna. Chi potrebbe mai comprarle, mi chiedo sorridendo. Un ragazzo si abbraccia on un’amica, pare che non si rivedano da tempo. Immagino quante cose abbiano da dirsi. O forse si son trovati casualmente?

La camminata è lunga e rilassante, brevi rumori rompono il silenzio – una bici che passa, la medaglietta di un cagnolino che scodinzola, un rumore di tazzine – la vita pulsa, nonostante questa sensazione di assenza.

Quando decido di tornare verso la stazione dei bus, rifaccio tutto il lungo fiume controllando con ansia le distanze e i tempi. Qui l’aria è movimentata. Ci son scolaresche che immortalano il loro viaggio con una rumorosa foto di gruppo, turisti che fotografano tutto e tutti e veloci e sfreccianti ragazzi in bici (a proposito, state attenti!).

I caffè si riempiono di persone che cercano di trovare il loro posto al sole, in comode serie dal rivestimento in lana bianchissima, quasi si accomodassero su una pecora! La musica cambia a seconda del locale, come le giovani cameriere che fanno la spola tra il banco bar e i tavoli. C’è chi mangia già per il pranzo pesantissimi piatti composti sempre a base di carne o chi sorseggia un caffè. Un negozio di dischi mette in bella mostra un vinile di Elvis proponendo titoli di tempi musicali quasi dimenticati.

Scelgo il mio bar con gli sgabelli alti e una composizione di lampadine tenute da barattoli di conserve. Tempo di riordinare le idee, scrivere qualcosa, fare alcune telefonate. Il Triplo ponte di Plečnik porta alla piazza principale, Preseren. Curiosità è che non ci sia in mezzo nessun monumento a qualche eroe locale ma a un poeta, proprio Preseren, esponente del romanticismo europeo. Scriveva sonetti amorosi in lingua slovena.

La piazza racconta molto della città: è ingresso della vecchia città murata e si affacciano vari edifici, la chiesa francescana dell’Annunziata, i palazzi eleganti e borghesi di Frisch e Seuning e il grande Magazzino Urbanc (primo grande magazzino lubianese), e ancora casa Hauptmann e palazzo Meter.

Incantato da questo equlibrio, senza lo stress e il dinamismo di altre città europee, vado via da Lubiana. Il caos della stazione dei bus mi ricorda che purtroppo la magia dei centri storici dura poco. Va preservato quel momento. Il ricordo, lo sguardo, il profumo fugace del tempo passato. Il silenzio di chi per farsi amare non deve urlare.

Cosa fare a Fuerteventura?

In realtà, la domanda giusta sarebbe: Perché NON andare a Fuerteventura?
Me lo son chiesto quando, con il mio solito last minute, grazie all’amico Giuseppe Marcialis che mi ha mandato in avanscoperta come inviatixi speciale per I sarti del viaggio, ho deciso di partire sfruttando il periodo migliore dell’anno!
DOVE SI TROVA. Dico la verità, non avevo ben capito! Quattro ore di volo Ryanair da Bergamo e sei nell’Oceano Atlantico, al largo delle coste marocchine (distanza 100km), tra Lanzarote, a Nord-Est, e Gran Canaria, a Sud-Ovest.
È la seconda isola delle Canarie dopo Tenerife. E’ la più vecchia, datata 20 milioni di anni fa, ma anche la più selvaggia e affascinante dal punto di vista naturalistico e paesaggistico.
Il paesaggio è assurdo! roccioso, desertico (come quello africano) e vulcanico. Si è infatti originata dalle eruzioni vulcaniche. La montagna più alta, il Pico de la Zarza, ha 807 metri, mentre la maggior parte della superficie dell’isola presenta meno di 200 metri di altezza.
POCA GENTE, MOLTE CAPRE. Fuerteventura è poco popolata, tanto che ci sono più capre che esseri umani! Le capre vengono allevate per produrre il famoso queso majorero, un formaggio così rinomato da aver ricevuto la denominazione di origine che ne certifica l’effettiva provenienza dall’isola e la genuinità.
CHI TROVI. I surfisti ne fanno meta speciale perché amano le onde, i pensionati, una nutrita comunità di Italiani che ha lasciato – senza rimpianti – il bel paese, poi ancora famiglie, turisti inglesi e tedeschi in ogni stagione, nomadi digitali alla Tixi e hippy!
L’AVVENTURA! Fuerteventura non è per tutti. Lo dice il nome stesso “forte avventura”. Quindi se vuoi goderti al meglio devi noleggiare un’auto, avere una mappa, zaino in spalla e correre alla scoperta di posti meravigliosi e incontaminati, che spesso si nascondono dietro strade sterrate (occhio alle forature). Ogni giorno sarà un’avventura diversa, da nord a sud sono circa 100 chilometri!
A dispetto della sua ridotta estensione, è un concentrato di posti bellissimi: spiagge diverse una dall’altra alcune con acqua cristallina e spiaggia finissima altre con…pop corn, la laguna naturale, il piccolo deserto, i borghi antichi, i mulini a vento, i paesaggi lunari, le piantagioni infinite di Aloe Vera e cactus, mercatini, rocce, lande desolate e tanto, tanto altro.
QUANDO DOVRESTI ANDARE. Meglio dalla fine della primavera (verso maggio) fino a fine ottobre. Sconsigliato il periodo estivo, soprattutto a luglio e agosto. Incognita del vento, sempre, che non mi è parso così fastidioso!
ALLOGGI, MOVIMENTO E PASTI. Scegli una zona che ti permetta di spostarti nell’isola (ero a Morro Jable, forse era meglio Puerto del Rosario). Forse è più economico l’appartamento.
Il noleggio di un’auto: dai 30 euro al giorno e il prezzo del carburante intorno a 1,20 per la benzina e a 1,30€ per il diesel.
Un pasto al ristorante sta sui 20 euro a testa, se fate la spesa risparmiate circa il 30-40% di quello che spendete in Italia!
I POSTI CONSIGLIATI DA TIXI!
Tanti, troppi. Una piccola selezione.
Al Parque Natural de las Dunas de Corralejo passerai per una strada infinita che taglia in dune di sabbia dorata a perdita d’occhio, cielo azzurro, nuvoloni, un mare incredibile e la Isla de Lobos ad un passo. Ti consiglio Playa El Moro, una baia raccolta.
Se vuoi un delizioso borgo di pescatori, vai a El Cotillo: spiagge più belle dell’isola, tante scuole di surf, il vecchio porto, la Fortaleza del Tostón e un’ottima cucina.
Vuoi un panorama? Ecco il Mirador de Morro Velosa, un luogo surreale che sovrasta sinuosi barrancos (burroni) in un’arida valle che appare letteralmente rossa!
Se vuoi una spiaggia nera c’è la Playa Viejo Rey e La Pare, immensa, che con l’alta marea viene suddivisa in una serie di intime calette di diversa grandezza a ridosso della roccia frastagliata, amata dai surfisti.
Altra spiaggia? C’è la Playa de Sotavento de Jandía. Lunga ben 9 km, con le sue lingue di sabbia dorata che affiorano dall’acqua a circa 200 m dalla riva. Potrai sdraiarti in “modalità privata” su uno degli altri isolotti più piccoli che appaiono e scompaiono con le maree…
Ajuy – prova a pronunciarlo! – è un villaggio di pescatori dalle casette colorate, si affaccia su una spiaggia di sabbia nera (il bagno è sconsigliato a causa delle forti correnti). Un percorso conduce ad un Monumento Naturale (le rocce più antiche delle Canarie) in cui osservare ad occhio nudo substrati sedimentari formatisi nelle profondità oceaniche e antiche fornaci di calce.
Vuoi meditare? C’è la Montaña de Tindaya. Tra rituali magici e resti archeologici di grande interesse, era considerata sacra dagli aborigeni. Conserva circa 300 incisioni a forma di piede.
Vuoi una spiaggia di Pop Corn? Ecco la Playa de El Hierro. Ti ritroverai davanti ad una distesa di “pop corn” e quasi avrai paura a camminarci sopra! Si tratta di piccoli coralli bianchi – i rodoliti – dalla forma capricciosa, risultato dell’erosione di alghe calcaree.
Vuoi un vulcano? Ecco il Calderón Hondo, tra i migliori conservati. Si arriva in cima (278 m) in mezz’ora, percorrendo un sentiero sterrato e ben delineato.
Da qui ammiri la natura dell’isola, i suoi colori rossastri con l’azzurro del cielo, gli infiniti coni vulcanici, le dune, il mare e la vicina Lanzarote, ma soprattutto passeggi lungo tutta la bocca del cratere! Occhio agli scoiattoli in cerca di cibo…
Vuoi una bella cittadina? Ecco Betancuria, l’ex capitale,uno dei più importanti punti di riferimento coloniale nella storia delle isole Canarie. Fondata nel 1404 dal cavaliere normanno Jean de Bethencourt, che scelse una valle interna, lontana dal mare per una migliore difesa contro i pirati. Se passeggi capisci la storia di Fuerteventura!
E PER MANGIARE?
Si comincia con una zuppa o un’insalata (entrantes) e poi il piatto principale che puo’ essere di carne o pesce. Le pietanze sono accompagnate da un contorno (guarnición) di verdura, legumi, riso o patate.
L’aperitivo non esiste ma puoi sostituirlo con le tapas: olive, tortilla, pane con pomodoro fresco e le famose papas arrugadas con mojo (piccole patate con buccia rugata con salsa all’aglio e paprika). Da provare il pimiento de padron, piccoli peperoni verdi fritti e i gambas a l’ajillo, gamberetti all’aglio. In alcuni posti trovi anche il prosciutto (jamon) iberico Pata Negra tagliato a mano con tecnica e ottimi formaggi (queso).
La carne propone pollo, maiale, vacca, coniglio e ovviamente la capra.
Per il pesce polipi e di tante varietà con lisca, ma anche murene e lapas (specie di cozza). Non ci sono crostacei perchè l’Atlantico è un mare freddo.
C’e’ tantissima frutta dalla Spagna mentre i prodotti autoctoni sono il platano (piccole banane), mango, papaya, avocado e fichi d’India dai quali si ottiene una famosa marmellata.
Altro prodotto molto amato è il gofio, miscela di farine di mais e grano, che si utilizza per dolci, mousse e biscotti o anche disciolto nel latte come se fosse un cacao.
E SE VOLESSI BERE QUALCOSA?
La birra più diffusa è la Tropical, che e’ di produzione Canaria e L-Apa, che e’ la prima birra artigianale prodotta da quattro giovani ragazzi.
Il vino buono viene importato dalla penisola o da Lanzarote che ha vigneti unici al mondo grazie al suo ecosistema. Famosi sono La Geria, la Malvasia Vulcanica de Lanzarote, El Grifo, etc.
Famoso anche il Ron Miel, un rum molto dolce ottenuto da rum, acquavite di canna, zuccheri e il miele d’api. Tra le bevande analcoliche c’è la Clipper, gassata al sapore di fragola.
CURIOSITÀ
-Non si spreca l’acqua. Sull’isola non c’e’ acqua ma un impianto dove l’acqua marina viene trasformata in acqua dolce!
-Piove poco, ma ci sono i microclimi, se ti trovi in un posto dove in quel momento piove magari a 10 km splende il sole.
Molti noleggi non coprono l’auto nello sterrato, occhio!
si parla anche tedesco e troverai… molti tedeschi!
COSA MI HA COLPITO
Una piccola isola, piena di scenari straordinari. La rilassatezza, il senso selvaggio e di lontananza che si gode in tante parti (certo, ci sono anche quelle straturistiche). E la grande capacità dei canari di rendere un luogo desertico e periferico, accogliente per un viaggiatore in cerca di emozioni!
E tu che aspetti?

Una sera a Tallin

Lascio Roma a metà pomeriggio. Il caos della stazione Termini, il pullman per Ciampino e ancora a chiedermi quale santo difenda i miei bagagli quando salgo a bordo.
L’autobus Terravision – sei euro solo andata – ha un compito arduo: in quaranta minuti vincere il caos capitolino e portarmi nell’aeroporto povero di Roma quelle delle low cost. Sgomita e sbuffa, suona il clacson e cerca spazi come un Sebino Nela d’annata. Alla fine vince. I tempi son rispettati, quaranta giri d’orologio spaccati.
Ciampino è un bilocale. Controllo biglietto già all’ingresso e primo serpentone da superare con una tipa che sbuffa quando le chiedo se debba mostrarle anche il greenpass. Ma non lo vede questo qui che è già troppo se sto seduta all’aeroporto invece che farmi un aperitivo? Alla fine del labirinto si può scegliere tra direzione check in e diretto ai controlli. Forte del mio zaino da spalla – grazie Edoardo Piras – posso passare alle semifinali: stavolta c’è una fila davvero. Ci son due nastri a disposizione, pochi per l’afflusso di oggi. Ricordate di togliere tablet, computer, liquidi e oggetti metallici. Una ragazza ogni venti secondi riprende la litania come se leggesse il salmo a messa, ci manca sola ora pro nobis. Se consideriamo un turno di 6 ore quante volte l’ha detto?
Il tipo dietro i metal detector davanti fa il vigile con due mani che fanno palette: passa tu, poi passa tu. Col solito modo tutto italiano di trattar male la gente. Poi penso: ora stacchiamo da tutto questo. Manca poco. L’attesa è breve, nella zona A dell’imbarco per Tallin non c’è bar e il distributore non funziona. Problemi tecnici, leggo, formula valida per ogni motivo. Volevo prendermi una bottiglia d’acqua, sconto la solita fregatura di aspettare all’ultimo. Guardo triste il bric di acqua Fiuggi che mi aspetta.
Il volo dura 3 ore che passo scrivendo, leggendomi un libro di Paul Auster e ascoltando musica. Va in scena la vendjta di tuttto, biglietti, panini, snack, profumi. Vicino a me una ragazza bionda robusta controlla i miei movimenti con fulminei sguardi di condanna mentre guarda un film con un iphone di prima generazione tenendolo per due ore davanti. Non capisco bene cosa sia anche perché quando ci provo mi rifulmina.
L’atterraggio è morbido, per una volta il comandante non frusta i cavalli imbizzarriti e sballotta noi viaggiatori che abbiamo però il sedere oramai asfaltato e i gomiti ristretti. Squillo di tromba – che sa sempre di inchiappettata riuscita – e scritta gigante bianca Tallin nel piccolo aeroporto, tra pareti brandizzate da marche semisconosciute, salette curate con interni di design e parquet ovunque. La temperatura è scesa, ci sono chiazze di neve. Cammino per uscire dalla zona imbarchi incrociando spazi ordinati, bar con caffè italiano, distributori di acqua e bibite e pochi altri rumori. Ciampino è un ricordo. Niente più caos e nemmeno controlli particolari. Uscito dalla zona protetta – mi sarei aspettato almeno una perquisizione – un bimbo con giubbotto da sci e cappuccio bianco con il padre e la sorellina aspettano la mamma con un mazzo di fiori. Escono dalla porta girevole per incrociarla sul marciapiede e quando lei si gira le fano a sorpresa. Mi commuovo per quella scena da film. Un uomo con un berretto a quadri, rughe nel volto e profumo di tabacco guarda gli orari degli arrivi. Chi starà aspettando? La moglie? La figlia? Il figlio?
Davanti allo scalo passa il tram 4, quello che ti porta in centro, oltre alla linea 2 che arriva più tardi. Vicino c’è una sala d’attesa dove stazionano due uomini che penso restino là a guardare tutti i tram che passano fini al giorno dopo. Uno schermo gigante con le info sulle linee, una biglietteria automatica, parole chiare e semplici.
Il mio tram è direzione Tondi, passa tra 8 minuti. Siamo in pochi a bordo, una donna di una sessantina d’anni con una busta piena di medicine veste un giubbotto rosso e panta neri, due ragazze di Napoli, le uniche di cui si sente parola, e un’altra coppia seduta con lui di fronte a lei che si sorridono silenziosi.
Mezz’ora di buio attorno e sono in centro di una città ordinata, geometrica, il freddo che schiaffeggia la pelle, quella voglia di coccole e riscaldamento sparato al massimo e la sensazione che tutto abbia una dimensione ancora umana. In ogni angolo alberi di natale illuminati, vetrine addobbate con grazia, poche persone in giro, tutte munite di cappuccio e guanti. Finestre accese e vita domestica da scoprire.
Sono a Viru, davanti a Tammsaare Park. Le auto scorrono lente in grandi viali anch’essi illuminati. Nuovi palazzi si alternano a vecchie costruzioni tirate a lucido e altre dal sapore sovietico. Un piccolo chiosco solitario aspetta clienti che non arriveranno più. Una fermata dove incontrare fantasmi e pensare alle loro vite. Una grande croce illuminata davanti alla chiesa che rintocca le nove con una doppia tonalità.
Io amo le città nordeuropee d’inverno! Oltre alla magia mi fanno venir voglia di mangiare.
Il centro storico (illuminato per Natale) é uno scrigno dorato, richiama i tempi del Medioevo, di cui la capitale dell’Estonia mantiene quasi inalterate le tracce nelle sue strade, case e chiese. Si estende ai piedi della collina di Toompea ed é stato dichiarato Patrimonio Mondiale Unesco.Cuore pulsante della cittá vecchia é la Piazza del Municipio, dove tra le altre cose si trova una delle farmacie piú antiche d’Europa.
Ci metto pochi attimi a capire l’anima di una città. Mi è bastato camminare per sentirmi bene. Senza sapere nulla di tutto il resto, affascinato da cose semplici, una vecchia birreria, un bimbo che gioca con la neve, due donne anziane che parlano rientrando a casa, un market aperto e un chiosco che sforna panini.
Arriva una notifica al mio cellulare: APPROVATO IL SUPERGREEN PASS. Spengo qualsiasi flusso di notizie. Non voglio saperne più nulla.
Una scritta sul muro ricorda di non buttate il tempo o il tempo ti butterà. Non credo sia un caso averla incontrata.

Due giorni a Santu Lussurgiu

Il racconto di due giorni a Santu Lussurgiu, un viaggio, quasi per caso, a dicembre del 2020.

LA SERA A SANTU LUSSURGIU

Immaginate di lasciare la 131 e accendere la macchina del tempo, trovare dopo chilometri e chilometri di pioggia e nebbia un luogo dove il tempo scorre lento, dove non esiste la frenesia delle giornate scandite dai ritmi imposti dalla moderna società, dove lo stress delle città è davvero lontano.
Un luogo che si nasconde tra luci giallognole e solitudine dettata dal freddo e dal lockdown. Un luogo dove, se ci arrivi quando è sera come me oggi, sembra di stare immersi in una favola di Collodi.
Eccomi allora scendere in strada, nelle meravigliose e antiche vie acciottolate, ammirare gli angoli, i ricordi, i rumori, tra un tocco di campane e una grondaia, un uscio che sbatte lontano e il più classico dei profumo di caminetto.
Fantasma nella sera, accompagnato solo dai passi. Quando trovo la pizzeria, con un portone di casa e un scritta di legno con scritto APERTO mi chiedo se sia davvero una pizzeria. Ma l’indirizzo è quello giusto. Prendo coraggio, busso e appare una vecchia osteria con un camino enorme, una tovaglia biancorossa e il proprietario novello Mangiafuoco.
Sembra un luogo del passato, dove i viandanti si riparavano dalla neve aspettando che finisse la tempesta. Perchè qui a Santu Lussurgiu, borgo immerso nelle rocciose vallate del Montiferru, si respirano le atmosfere del passato.
Parlo con il simpatico signor Mangiafuoco – lo chiamo così con rispettoso affetto, non avendogli chiesto il nome – che mi racconta che qui prima c’era un fienile e gli animali. Poi questo spazio è stato liberato da una decisione dell’amministrazione e dato in concessione. Che dietro c’è un bellissimo vecchio mulino, purtroppo crollato e non si sa quando lo rimetteranno in sesto. Che quando la pizzeria era aperta si respirava un’altra aria. Ora son tutti a casa.
In pochi minuti, mentre prepara una pizza fragrante, mi racconta del Carnevale, della musica, di una grande attività culturale, della tranquillità che si respira. Dice che d’estate sia tutto più animato. E io aggiungo: perché togliere questa sensazione fatata del freddo e dell’inverno? Io amo il freddo!
Mi sento a casa, sento un luogo dove poter ritrovare la propria anima.
Vado via riprendendo la strada per l’intricato dedalo di viuzze poco illuminate, silente e pensieroso. Ho una strana sensazione, la solita: ma come sarebbe vivere a Santu Lussurgiu?

IL GIORNO A SANTU LUSSURGIU.

E quando viene giorno, Santu Lussurgiu riserva altri colori e altre emozioni, sempre speciali
Oggi c’è il mercato e la piazza sotto la chiesa di Santa Maria degli Angeli si è animata di gente che contratta la verdura e gli oggetti in vendita. Qualcuno scherza sulla mascherina e le donne, riempita la busta della spesa di gustosi prodotti, tornano nella case perdendosi in questo intricato dedalo dove ora fanno da padrone i rumori di artigiani e lavoranti.
Al Bar Raju Ruiu – modernissimo e caldo – mi fermo per colazione osservando un po’ di vita, gli operai che asfaltano la strada, i passanti, incrociando un gruppo di ragazze universitarie che prepara un esame al tavolo vicino, chiacchierando anche dei docenti e del futuro del proprio corso. Studiano scienze sociali, così ho capito.
Dal ristorante Bellavista al primo piano si gusta un menù di terra, con un sottofondo musicale jazz che rompe il silenzio.
“Una tagliata di sardo modicana con patate” mi consiglia la giovane cameriera con i capelli a spazzola. Di fronte al mio tavolo si apre una veduta speciale che abbraccia i tetti del paese, su cui il fumo dei comignoli si eleva, quasi volesse difenderli dalle intemperie di questo 2020 o forse dalle ansie e dello stress del mondo che corre a pochi chilometri da qui.

CONSIGLI
Dove alloggiare: bnb Templars Guest House
Dove mangiare: ristorante Bellavista | bar Raiu Ruiu | Locanda del Convento

TUTTE LE FOTO https://www.facebook.com/media/set/?set=a.10221533550502158&type=3

Viaggiatori contemplativi

L’amica Giulia Loglio, esperta di turismo contemplativo, mi ha insegnato tempo fa una parola nuova: flaneur, che vuol dire “passeggiatore svagato e a momenti curioso”. Le parole aprono mondi e suggestioni infinite, che puoi riempire poi di contenuti.
Ho finalmente trovato qualcosa che riassumesse un modo di viaggiare che adoro, disincantato, leggero, scazzato, curioso e senza ritmi turistici.
Pochi punti di riferimento, molta casualità, vicoli incerti e luoghi meno battuti.
Si rischia di sbagliare, di perdere tempo, ma forse il genius loci o il dio dei viaggiatori ci trova sempre una soluzione!

Oggi mi son inerpicato per le vie strette di Coimbra senza una direzione particolare, se non quella di salire e salire, non senza fatica, incuriosito dal silenzio e dai vicoli senza fine che nascondevano giardini e case abbandonate, fichi e piccole taverne. E trovare poi tante cose interessanti da vedere, non sempre scontate!
Grazie ancora Giulia!

Aveiro e Costa Nova, dove la laguna diventa oceano

Ci vuole un’ora per arrivare da Porto ad Aveiro. C’è un trenino diretto, con soli 4 euro, che parte ogni ora dalla meravigliosa stazione di Sao Bento, e nonostante gli sbuffi e la lentezza ti regala bei fotogrammi, come rivedere ancora una volta Porto da punti di vista inattesi.
Poi è subito oceano e campagna, scendendo lenti verso Lisbona.
La stazione di Aveiro è lontana un chilometro dal centro, che si copre passeggiando su pavimenti lastricati di sampietrini della Avenida de Peixinho.
Quando pensi che lo stradone non finisca più, lo scenario davanti cambia, i primi specchi d’acqua sono i canali che raccontano un’altra anima, quella di una cittadina che vive a contatto con la laguna, non a caso chiamata la Venezia del Portogallo.
E allora ecco, i barcos moliceiros, le gondole. Moliço è proprio l’alga che una volta veniva raccolta nella laguna di Aveiro, utilizzata per la fecondazione dei campi. Ogni moliceiro ha molti colori e sul lato davanti c’è la pittura di qualche santo, celebrità o motivo divertente e a volte un po’ lascivo dalla vita di tutti i giorni.
Luis ci racconta la storia del Ria de Aveiro, e cita una parola che mi incuriosisce, “ovuli”. Ovuli, cosa? Ecco a cosa si riferiva! Ovos moles, questa scritta l’avevo vista appena uscito dalla stazione!
Scopro che sia il dolce tradizionale della città, piccole ostie dalle forme più svariate con tuorli d’uovo crudi e sciroppo di zucchero. Deliziosi!

Il centro è fatto vicoli stretti e lunghi, che subito dopo pranzo diventano silenziosi intrecci di un labirinto di edifici stile art noveau. Non è casuale sbirciare dentro qualche casa e sentire i profumi del pranzo appena preparato.
Minute botteghe e caffè conquistano il cuore del viaggiatore che vorrebbe fermarsi qui a lungo. Ma Aveiro, posso dirlo, vale una giornata, apprezzandola di primo mattino quando, dopo una ricca colazione, bisogna farsi travolgere dal vociare allegro delle prime conversazioni colorite del mercato del pesce.
Nel quartiere dei pescatori c’è anche il grande Jardim do Rossio e la cappella di San Gonçalinho, a cui gli abitanti dedicano ogni anno una festa speciale.

Il rapporto col mare, oltre alle gondole e la pesca, ha un altro motivo: il sale. Le saline di Aveiro sono alla periferia e pare siano la vera essenza della laguna. L’acqua salata del Ria de Aveiro fa sì che diventata sia la patria dei collettori di sale.
Il sale è detto “flor de sal” ed è un prodotto finissimo oltreché altamente rinomato. Lo trovate in vendita in ogni dove. Sale, ovuli, gondole e… oceano! Perché non approfittarne per una bella corsa magari all’ora del tramonto?
Costa Nova è la destinazione!
Ci vuole mezz’ora per raggiungerla. Dopo molte ricerche, trovo una linea diretta di bus con fermata fuori dalla Scuola di inglese, all’imbarco dei moliceiros. Aspetto il pullman, leggendo recensioni non proprio incoraggianti su google. Nulla, non arriva. Mi chiedo cosa aspettino tutti!
Guardo nelle app del telefono e mi accorgo che c’è ancora Uber da queste parti. Eureka! E allora con 7 euro posso toccare l’oceano e magari conquistare il tramonto.
L’autista arriva puntuale, mascherina e attenzione, l’auto è una Opel tenuta bene, profuma di pino, interni lucidi. Andiamo verso il mare attraverso una superstrada. Si scusa per il non perfetto inglese mentre prova a raccontarmi il posto dove siamo diretti. Non nego di avere un po’ di emozione, specie per aver visto
le foto. Che diventano realtà davanti a me, dopo pochi minuti: sono le casette a righe color pastello, le palheiros, che si affacciano sulla laguna. Un clima balneare, la gente che corre e va in bici, i bimbi che giocano davanti a casa sorvegliati da solerti nonne e poi ancora, dall’altra parte le dune, la sabbia dorata.
Son arrivato a Costa Nova do Prado, dura non farsi sorprendere per i suoi colori e la sua allegria. Decido di fermarmi a godere le onde del mare, il profumo ella salsedine e il tramonto. La spiaggia è fatta di sabbia finissima, difesa da alte dune che si superano con camminamenti che permettono di spostarsi da un baretto all’altro.
Non vedevo da tanto l’oceano e non lo nego, son emozionato. Mi tolgo le scarpe per provare l’emozione di sentirne il freddo della sua onda, avanzo ma resto sempre a distanza, come impaurito da tanta forza. Un bimbo costruisce scatelli di sabbia vicino alla (forse) nonna, intenta a scrivere qualcosa. Se solo potessi curiosare tra quelle pagine! i son due anziani che fissano il mare. Sono davanti per minuti e minuti. Non parlano, non si muovono. Come se fossero sull’attenti, quasi in segno di rispetto. Sono quasi commosso da questa scena. Penso all’immensità e alla forza di un oceano, seguo con lo sguardo un mercantile che si perde nel nulla, forse diretto alle Americhe.

Il sole scende piano e continua a regalare gioia e ristoro. Ho tempo per una corsa, magari fino al faro di Praia da Barra, proprio alla foce del Ria de Aveiro. Ricordo che sia il faro più alto in Portogallo, in difesa delle tempeste e per aiutare o naviganti in un tratto difficile. Ma oggi c’è un bel sole che scende sull’orizzonte e il mare diventa meno scontroso al calar della sera. Il tramonto, il miglior premio per una corsa sull’oceano. 

In collaborazione con I sarti del viaggio

Il mercato di Sofia

Gli spruzzi di neve della notte sono già diventati acqua. La mattina è fredda a Sofia e in due giorni la temperatura è scesa di dieci gradi. Le persone accompagnano indossano vistosi cappelli che coprono anche le orecchie.
Pochi, davvero pochi, quelli che mostrano il capo. Annuncia neve ancora nel pomeriggio.
Camminare oggi non è proprio il massimo. Sul Bulevard Maria Luiza, vicino alla moschea Banya Bashia e alla concattedrale di San Giuseppe c’è il mercato centrale.
Un mercato atipico, ordinato e curiosamente silenzioso. I banconi puliti invitano assaggi di cibi dolci e salati. Una scolaresca viene messa in fila dalla maestra di fronte a un venditore di chincaglierie. Una donna mescola un contenitore di olive nere in attesa del prossimo cliente. Il kebab comincia a rosolare lento sul fuoco mentre gli anziani presidiano i tavolini del centrale Tosca Cafè che sforna con lentezza cappuccini e caffè da una macchina che sbuffa calore.
Al piano di sotto c’è un grande negozio che vende abiti usati a peso. Scorro magliette di altre epoche, giubbotti e maglioni che il tempo ha violentato, pantaloni sdruciti, presentati pulito e stirati nel tentativo di essere utili per qualcuno.