Pago il conto e vado via. Finisco gli ultimi fiorini.
Mi son fatto fuori un piatto ungherese di una pesantezza storica e una collezione di vino (tokaji), birra e tre palinke. Ho riempito mezzo taccuino di idee e cose da fare per il rientro, idee pazze e razionali. Ho cercato il futuro in un caffè annacquato servitomi con un sorriso familiare. Scivoloso come non mai dagli oleosi massaggi tailandesi, sbentio camminando nel freddo illuminato dalle luci soffuse delle viuzze di Budapest.
C’è sempre un po’ di tristezza quando arriva l’ultima sera. Pian piano ti tutto sembra meno sconosciuto, ti adatti velocissimamente e hai come l’idea di stare fuori oramai da mesi. Invece sono pochi giorni.
Fa ancora più freddo mentre percorro il lungo Danubio affascinato ancora da tante luci e da tanta semplicità che si trasforma in gioia. Gioia di essere qui a godermi un momento unico e speciale: la notte, il viaggio, l’acqua che scorre, la lontananza, un fiume che ha ispirato poeti, la bellezza del mondo che ti si apre ad ogni viaggio. E tra poco il caldo abbraccio della mia casa ungherese.
Giro la chiave nella toppa del portone, salgo le scale. Silenzio, solo i miei passi e il ferroso ascensore che scende al piano terra. Schiaccio il tre: le portine si chiudono, dolcemente si sale con le pareti in legno che stridono. Casa mia che domani non sarà più mia. Purtroppo. Quante case ho avuto? Mi sono affezionato a ogni loro particolare.
Rinasco ogni volta che mi allontano e ora come la metterò tornando a Chiagliari? Quanto tempo passerà fino al prossimo viaggio prima che il mio cuore riprenda il volo?
Poco, spero. Non posso più stare senza.