Da Siviglia in autobus destinazione Tarifa ci vogliono ben tre ore. Dovrei farcela. Poi ci sono i fuori programma. L’aereo da Cagliari tarda mezz’ora. Problemi di autorizzazioni al decollo, spiega il comandante con un forte accento inglese.
Prima di raggiungere la aiuola di sosta qualcuno si alza e viene rimproverato al microfono da una hostess. Stesso rimprovero per un gruppo di turisti che sosta in pista in attesa forse di altri compagni viaggiatori. La grande scritta SEVILLA e un sole secco e deciso mi abbracciano quando arrivo nel sud della Spagna.
La prima cosa quando arrivo in un altro paese è allontanarmi dai connazionali: sì, capisco che forse per alcuni sembrerà strano, ma non voglio più sentire una parola di italiano e abbandonarmi al luogo.
Il tempo è poco, ho il bus alle 14 in punto, meno di un’ora per andare in stazione, una follia se dovessi utilizzare il bus che collega l’aerostazione con il centro città. Manovro con il cellulare: la scelta è tra Cabify, che non ha mai usato, e Uber. Che bellissima invenzione è Uber e per fortuna in Spagna ancora resiste. Venti euro per la stazione Plaza Das Armas. Il budget va subito a farsi benedire, ma non ho altre scelte. Perderei il biglietto del bus e non so.
Il mio autista si chiama Pedro Jesus e arriva con una corolla nera. Lo seguo impaziente dall’applicazione. Le indicazioni dicono di andare a sinistra, e trovare il parcheggio. In realtà lui mi aspetta al parcheggio davanti. Per fortuna scrive. Lo ritrovo nella selva di auto che aspettano altri clienti. Forse Uber non può avvicinarsi per un qualche patto con i tassisti. Controllo le targhe, eccola!
“Nìcola!”, mi grida qualcuno. Sbuca da lontano l’autista con un sorriso e mi aiuta subito per lo zaino. Viaggio leggero, senza impedimenti, da un po’ di tempo. Lo zaino è l’essenziale e viaggio dopo viaggio ti misuri sulla ricerca del minor peso. Ad ogni viaggio posso ancora togliere qualcosa!
Siviglia è come me la ricordo. Bianca, sontuosa, soleggiata. La macchina costeggia il Casco Antigo, mancano dieci minuti alla stazione e per puro scrupolo riguardo il biglietto del bus. Sai quelle volte che vuoi essere sicurissimo di non sbagliare? E infatti, ecco l’errore: non parto da Plaza das Armas, la stazione grande, il terminal di città, ma da Prado San Sebastian! E dov’è? Quasi mi vergogno di dirlo al tassista, ma poi trovo coraggio per dire che ho sbagliato, in un mezzo italiano, spagnolo e inglese figlio della fretta e della paura. Lui mi capisce e non so che accada in questi momenti, specie con Uber e con una prenotazione.
Siviglia ha una tradizione di stazioni sbagliate con me molto interessante: tre anni fa per poco non perdevo il treno sbagliando la stazione. Là il tassista fece davvero miracoli violando almeno una decina di articoli del codice della strada e facendomi salire sul treno cinque minuti prima. O forse il tempo si fermò per me!
Pedro Jesus mi chiede di ricambiare la prenotazione dall’applicazione, spenderò 2 euro in più. La stazione sembrava più vicina ma è quasi sul fiume Stura. Seguo il percorso sul cellulare, ansioso: arriverò otto minuti prima della partenza. Ne mancano diciotto, ma non si sa come a un certo punto Google Map si aggiorna e diventano cinque. Sospiro di sollievo. Tutto quadra! Un colpo fortunato.
La stazione di San Sebastian, incastrata in un labirinto di strade, è piccola. Partono e arrivano i bus da tutte le province dell’Andalusia – Cadice, Cordoba, Jaen, Almeria, Malaga e Granada – e dalle principali cittá spagnole. Che bellissima invenzione è Uber e per fortuna in Spagna ancora resiste.
I bus in Spagna collegano tutta la penisola con un servizio davvero efficiente, nulla a che vedere con le sgangherate mobilità di casa nostra. Vengono puliti anche durante i tragitti, hanno connessione wifi – non sempre efficiente, dico il vero! – e son comodissimi. I tempi non son di certo quelli del treno, che comunque non vi fa arrivare ovunque in Spagna, ci sono ampie zone dove di rotaie non c’è nemmeno l’ombra, ma c’è la bellezza di una ulteriore lentezza, di vedere i paesi con un occhio più spensierato e senza spendere troppo. Mezza Spagna l’ho girata così!
Chiedo a un autista della compagnia Omes vicino al bus con la scritta Algeciras se passi anche per Tarifa. Mi dice che non è il suo mezzo e poi aggiunge “unos nueve!” indicandomi poi la piattaforma 19. Il bus non c’è ancora. Ho tempo per comprare una scorta d’acqua per riempire la borraccia e andare in una toilette dal sapore franchista.
La stazione ha colori gialli e bianco, una serie di panchine al centro e una ventina di piazzuole di sosta. Alla partenza c’è una famiglia araba, una coppa di tedeschi, e ancora un signore che legge un giornale da cui non si stacca per buona parte del tragitto e altre donne che viaggiano da sole (una di queste scoprirò essere pure sarda!). Altri arrivano un attimo prima della partenza, ottima tempistica! Io non ce la farei!
L’autista controlla la mia prenotazione online, mi guarda e mi dà l’ok per salire. Prima di partire e salire urla in stazione “Algeciras” come ultima chiamata. Una signora si avvicina e cantilena che prenderà il prossimo. L’autista le risponde di fare come vuole e la salute prima di chiudere la portina con lo sbuffo.
Usciti dalla città affrontiamo chilometri e chilometri di campi e terre seminate. Ci sono campi di girasole, canna da zucchero, fichi e file di alberi lontani. Amo i tempi lunghi dei viaggi, mi fanno fare ordine nella testa. Mi chiedo sempre se debba lavorare, scrivere o semplicemente godermi il paesaggio attorno. Nel volo aereo ho rimesso ordine agli impegni di questo periodo, ho pensato, ho finito un libro da leggere, ho dato senso ad alcune cose che non si smuovevano. E anche ora che sono in pullman, amo quella leggerezza che mi permette di stare così, solo con i miei pensieri, senza nessuna altra distrazione. Non devo far altro che aspettare l’arrivo. Saranno ben tre ore, c’è una persona che guida per me, un mezzo che dolcemente scivola su una strada, nessuno che mi aspetti e nessun appuntamento in vista con lo stress del dovermi spostare in auto.
Ripenso alle uscite ogni giorno, al traffico che da quando ho vissuto a Milano odio sempre di più – quello di Cagliari è roba da dilettanti, ammettiamolo – allo stress di dover conquistare un posto, di dover stare attenti agli inganni della circolazione, alla corsa senza fine degli altri. La macchina è uno dei fattori di maggior stress, insieme ai social e a whatsapp!
Da tanti anni ho provato a mettere una marcia più bassa. Sono consapevole che non sia possibile più correre. Mi godo il viaggio come impegno di lentezza e consapevolezza, come esercizio di gioia. In cuffia arriva un giro di note finale dei Gotan project con Diferente, mi prende un momento di emozione verso il terzo minuto tanto che mi scendono due lacrime. Quel remix di malinconia, nostalgia, tristezza felicità si insinua nella pelle. Saudade, che ti prende e ti sorprende quando meno te lo aspetti. Camminando in un lungomare, in un tramonto o in un viaggio, magari anche semplicemente sotto casa. E allora ripensi al tempo che passa criminale, ai ricordi che svaniscono, a dove sei, la bellezza diventa un tutt’uno che ti obbliga a spendere bene il tempo, a non perdere un attimo della vita.
In autobus c’è una lieve musica arabeggiante. Il paesaggio non cambia, scivoliamo leggeri verso Sud. Ogni tanto si vede il mare e piccoli paesini. La prima sosta è Puerto Real, la stazione è una fermata davanti a un baretto di nome Nakalera. C’è uno spazzino con un gilet giallo che taglia una tortilla di patate con una birra in lattina rossa e tre uomini che si contendono una partita a carte con una bottiglia, serviti da una donna con pantaloni cachi. Non ho capito bene se qualcuno scenda o salga, riprendiamo la strada e siamo due passi da una grossa laguna e in fondo industrie e gru mostruose. E’ Cadice, non posso dimenticare mai il suo profilo. Eppure dietro quella civiltà industriale e allarmante, quasi fosse una novella Indastria che fuoriesce dalla laguna, si nasconde una città fantastica.
Cambio la playlist e punto sul NeoTango dove c’è un pezzo di un Bajofondo. Gli associo ai Gotan Project ma sono una formazione musicale di musicisti argentini e uruguagi. Si definiscono “collettivo di compositori, cantanti ed artisti”. Anche loro fanno questo delizioso elettrotango con quella carezza malinconica. Una loro canzone, Pa’ Bailar, diventa la colonna sonora per decine di chilometri. Hai presente quando un pezzo ti entra nella testa? Spensierata e divertente, un po’ scanzonata con questo lead strano che penetra le orecchie.
Presa la A48 ci dirigiamo verso Chiclana de la Frontera, allontanandoci di nuovo dallo specchio d’acqua. A San Fernando la poesia viene annientata tra centri commerciali e stabilimenti, distributori e supermercati troppo grandi, cartelloni pubblicitari e concessionarie d’auto. Prendiamo direzione per Algesiras e Malaga, per tornare a costeggiare l’oceano che tra poco sarà Mar Mediterraneo.
A Chiclana de la frontera scendono una decina di persone. Non so perché ma le conto. C’è una donna con un abito nero che ha un grosso fagotto e si fa aiutare da un giovane e un ragazzo che sale, mostra una tessera, ma viene rifiutato dall’autista. Così va via senza nessuna discussione. Vicino alla fermata, c’è un parchetto con bimbi troppo grandi che si arrapicano in scivoli e altalene, una donna che tiene un quaderno e studia con la figlia che ripete qualcosa guardando in alto, come a chiedere al cielo i suggerimenti. Ridono, insieme. Forse starà recitando una poesia? Un’altra donna ha un carrello della spesa che sembra un trolley gigante che spinge con estrema lentezza fermandosi ad asciugare il volto. Attorno è un insieme di piccole palazzine che compongono un quartiere popolare fatto di spazi ampi e zone dove incontrarsi e passare le serate. La tipica architettura urbanistica delle città spagnole che vuol dare occasioni di socializzazione alle persone.
Usciamo dal paesino e il paesaggio è sempre più arso dal sole come la destinazione diventa Sud. Se non sapessi di essere in Spagna potrei dire il Campidano in Sardegna, stessi colori, stesse visioni. Inizio a litigare con il cellulare che è appeso alla presa USB sopra il sedile. Cade più volte ma per fortuna non si fa nulla. La mente brucia di pensieri disordinati più dei geometrici campi, ognuno con le sue casette bianche, le finestre azzurre, capaci di resistere al sole di qualsiasi stagione. La scritta Burger King mi riporta al mondo moderno, nonostante un baretto dimenticato da Dio con una scritta azzurra su sfondo bianco La Vega e la sua offerta: si vedono miele, panini, spremute e colazioni. Non capisco l’associazione dei prodotti ma son certo che quel cliente solitario con un capello nero abbia trovato la sua birra giusta.
Tutto è poesia finché non ti imbatti nelle zone industriali fuori dai paesi, fatti di capannoni e di fabbriche, di costruzioni finite o a metà, residence perfetti che aspettano frotte di rumorosi turisti con annessi campi di Padel. Allora le forme bianche delle belle casette di campagna o che si affacciano sul mare diventano corpi senz’anima. Certo, l’economia, il lavoro, la modernità. Tutto questo fa parte del mondo che viviamo. Ma la poesia è altra cosa.
“Conil, Conil!” urla l’autista, “dieci minuti per andare al bar o in bagno”. Scendono in tanti, non so se per andare via o rilassarsi. Due ore e mezzo di viaggio non son poche! La stazione di Conil è un grande capannone con quattro posti pullman, un baretto e quattro panchine. Un ragazzo sta aspettando qualcuno. Controlla e ricontrolla il cellulare e si guarda attorno: è una ragazza. Quando si vedono l’abbraccio è infinito, dura troppo per essere un semplice ritorno. Due ragazze si raccontano segreti e storie con ampie nuvole di fumo davanti, inginocchiate in un blocco di marmo e un pacco di patatine da sgranocchiare. Due donne, non più giovanissime, sgranchiscono le gambe con movimenti circolatori coordinati.
Quando ripartiamo ritroviamo ancora una distesa di campi stavolta animata dal moto circolatori delle pale eoliche. Perdo il conto di quante ce ne siano e quando la strada si fa una lingua d’asfalto lunghissima, lo spettacolo di questi marchingegni meccanici diventa allarmante. Un gruppo di mucche prendono il sole chiedendosi il motivo per cui l’uomo violenti così il paesaggio. Anche qui è la civiltà che chiama e guai a discutere su questi modelli di sviluppo, potresti essere additato di arretratezza e anticonformismo radicalchic.
Finalmente mare, una lingua di sabbia infinita e tanti kite surf. Ci avviciniamo a Tarifa. Un’auto fa un sorpasso al limite del codice (penale) tanto che l’autista urla un violento “coglione!”. Qualche minuto in più e in meno e sarebbe stato uno scontro frontale, e non credo con conseguenze leggere. Ci pensate a quanto la vita sia un insieme di centimetri e di minuti? Spesso per pochissimo tutto può cambiare. Si chiamano coincidenze, sono quelle del destino. Essere nel posto giusto, al momento giusto. E magari vederne concretizzate altre: un incontro casuale figlio di un ritardo, una persona conosciuta incrociata in una metropoli, un volo perso che ti salva la vita. Oppure soccombere per quel caso del destino.
La sfilata di colorati negozi per surfisti con scritte e bandiere diverse, prima ancora di uno sguardo all’orologio, mi dice che siamo arrivati. Finalmente! Tarifa, la stazione è un box, troppo piccolo per essere vero. Il sole colpisce ancora ma un vento fresco schiaffeggia la faccia. I ricordi affiorano, quanto tempo fa son passato? Avevo scritto un altro post! Una donna che viaggiava con me si avvicina: “Sei sardo? Si sente!”. Ha ascoltato una mia chiamata con mio fratello. Avevo fatto di tutto per non disturbare gli altri. Non ci son riuscito.