Camminare per Lione è stata un’esperienza di creatività e leggerezza, un momento in cui la città sembrava restituirmi quella bellezza che cerco.
I murales comparivano all’improvviso, come finestre sull’immaginazione. Poi c’erano i negozi, non solo quelli delle catene globali, ma botteghe: ritrovi dedicati alle passioni, agli hobbies, all’automobilismo, alla giocoleria, all’arte del violino, ai dischi in vinile. Luoghi dove c’è l’umano nel suo bisogno di creare, collezionare, esplorare.
No, le passioni che ci rendono vivi non sono finite, nonostante abitiamo una società che sembra appiattirsi su un grigio tecnicismo. Tutto deve essere misurato, ottimizzato, piegato alla logica del guadagno e della performance. Farmacie, market e ristoranti: templi del consumismo che promettono sollievo immediato ma negano il nutrimento dell’anima.
Mangiare, consumare, riempirci e curarci sono i verbi dominanti di questa decade. Un’epoca che, come osserva Byung-Chul Han, ha trasformato l’esistenza in una “società della stanchezza”, dove il consumo ossessivo è un anestetico per sfuggire al vuoto e alla pressione del dover essere produttivi a ogni costo.
Anche Zygmunt Bauman ci aveva avvertiti: viviamo in una “società liquida”, dove i legami sono fragili, e il consumo è diventato il principale modo di costruire un’identità.
Ma quale identità resta, se ci limitiamo a riempire carrelli e stomaci, mentre lasciamo morire di fame i nostri sogni?
Lione. Un post it colorato, da attaccare davanti a me, a ricordarmi che la vita è imprevedibilità e passione, se solo sappiamo cercarla oltre i luoghi (e le persone) banali.