Ricordate le tre scimmiette?
Facevano “non vedo, non sento, non parlo”.
In giorni come questi, dove la cronaca ci ha dato tante notizie da commentare, mi vorrei soffermare su tre in particolare: l’aggressione omicida della infermiera rumena, il caso di Sarah Scazzi e i “bu” razzisti allo stadio sant’Elia.
Sul caso dell’infermiera rumena, come ho commentato in un mio post, c’è stata la prova che siamo un paese di indifferenti: un’aggressione in pieno giorno nel metrò della capitale, poca solidarietà e molta spallucce. Contorno finale: i cori di sostegno per l’assassino.
Fosse accaduto a parti inverse (un italiano ucciso da un rumeno) avremmo sicuramente sentito la solita pioggia di commenti e link razzisti. Invece cercheremo di rimuovere subito la vicenda, in attesa di qualche straniero che si macchi di un reato per poi moralizzare sulle necessità di chiudere le frontiere perchè immigrato=delinquente è l’equazione più facile per chiudere gli occhi e dimenticarci di casa nostra.
Morale della favola? In Italia la morte non è uguale per tutti. Eppure la violenza lo è: ne sono protagonisti italiani ed extracomunitari, clandestini e regolari, ricchi e poveri. Single e famiglie. Non contano il ceto sociale o lo stato civile.
La bene amata e sacra famiglia sta diventando la cornice migliore dove si attuano i peggiori delitti. E allora eccoci a Sarah Scazzi, la ragazza violentata e uccisa in quel di Trani. Uno show mediatico che ha fatto dimenticare tutto il resto. Ma la tv italiana ama queste storie, i contorni della vicenda, la morbosità su cui ricamare storie e favole, servizi e speciali, trasmissioni e approfondimenti. Anche qui, un’altra cornice: la famiglia italiana. Chissà quanti delitti al suo interno, pochi svelati e molti nascosti.
Infine, un caso vicino a noi: i cori razzisti allo stadio contro Etò in occasione di Cagliari-Inter. Pare che l’oggetto degli stupidi nostrani sia stato anche Stankovic. L’assurdo è sentire persone, anche ad alti livelli, minimizzare o addirittura negare questo fatto, perchè poi si ha paura del risvolto della cronaca e della strumentalizzazione. Che il buon nome di Cagliari sia violato. Oppure dire: “immaginati cosa urlano ai sardi in trasferta”, come se il razzismo avesse una scala di gravità o se ad affronto bisogna sempre e solo rispondere con un altro affronto. Ma la cultura da stadio è questa, facciamocene una ragione. Una cultura ignorante, grezza, di parole e frasi sparate alla ricerca di qualcuno da offendere in nome di una non-meglio-identificata cultura dei colori e della città nutrita da scazzottate, insulti e slogan.
Già: “non vedo, non sento, non parlo”.
Questa è la logica con cui continueremo a vivere. Questa è la logica che sta animando le giovani generazioni. La vedi scritta sui muri, come stile di vita, come filosofia comportamentale a cui adeguarsi.
Alzare le spalle e fregarsene di tutto. Voltare le spalle agli altri e arrendersi di fronte a un mondo che peggiora sempre di più, che ha perso il valore dei comportamenti base, del rispetto delle opinioni altrui, delle strette di mano, del senso civico.
La violenza, cari amici, comincia da questo. Comincia dall’uso errato delle parole, dagli atteggiamenti, dai “tanto sono problemi degli altri”, dal “noi” contro “voi”, da tutte le menate che vi fanno credere in tv e in giro per le strade.
Comincia quando passano questi messaggi, quando si generalizza, quando anche le cose peggiori diventano normalità, quando si ragiona per gruppi ed etnie, per squadre e per città. Quando è impossibile avere un’idea che non sia quella della massa.
Quando discostarsi dai comportamenti sbagliati significa essere estromessi.
Allora arrendiamoci a morire, arrendiamoci alla realtà, arrendiamoci a che uno sguardo, un piede pestato, una confidenza o un sorriso alla ragazza sbagliata possano diventare l’anticamera di un’aggressione. Arrendiamoci ad abbassare lo sguardo, a non frequentare certi posti, a non essere cittadini e uomini consapevoli del mondo che ci circonda.
È una nostra scelta, essere presenti nella vita, dire la nostra o fregarcene, chiuderci in casa e non partecipare.
Stiamo giocandoci un po’ della nostra libertà e non ne siamo ancora consapevoli.