Tixi

La vita in abbonamento

L’altro giorno il mio software di gestione musicale dei file che uso per le serate da DJ (Rekorbox) ha deciso che non sono più degno di usarlo senza pagare un tributo mensile.

Ha cominciato a martellarmi con richieste d’abbonamento inedite. Eppure, nell’angolo più remoto, c’è ancora la versione Free che via via ha sempre meno funzionalità e prima o poi sarà inutile perchè superata dagli aggiornamenti (continui, stressanti).
 
E così, un altro piccolo pezzo di realtà è scivolato nella grande nube del noleggio perpetuo.
Abbiamo perso il diritto di possedere le cose, non è più una sensazione. Film, musica, software. Viviamo in un cloud esistenziale, un pagamento mensile per ottenere tutto, per avere tutto a disposizione senza essere padroni di nulla.
Forse un giorno ci sveglieremo e ci renderemo conto che stiamo affittando anche la nostra esistenza, a rate, con rinnovo automatico.
 
Mi piace leggere, tra gli altri il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han.
Chi mi segue con attenzione lo sa. Beh, lui ci ha già avvertiti: la società contemporanea non ci reprime più con divieti, ci seduce con comodità. Alla faccia di chi crede che la repressione sia manganello e olio di ricino (dai, su, ammettetelo che siete fermi a questi concetti).
E noi, felici di avere tutto a portata di click, tronfi del vivere dentro la società del 2025, non ci accorgiamo che la libertà di scegliere sta scomparendo. Non possediamo più nulla (neanche un pensiero critico e indipendente, scevro da idiozie come destra e sinistra), perché possedere (un oggetto, un pensiero) significherebbe essere autonomi.
La tecnologia ci regala un senso di illimitata disponibilità, mentre in realtà ci lega con vincoli invisibili: smetti di pagare e sei fuori. Smetti di essere.
 
Non c’è alternativa. Se non ti abboni, semplicemente non esisti.
Il nostro accesso alla cultura, al lavoro, alla socialità passa sempre più per piattaforme, che non si chiamano solo Netflix e Prime Video. Mediatori di presenza o “sei fuori”.
 
Ho fatto un conto: se dovessi dire sì a tutti gli abbonamenti di cui ho bisogno da dj e comunicatore (Netflix, prime, rekordbox, splice, canva, ecc) sono a più di 400 euro al mese. Un mutuo, per intenderci.
Allora tengo stretto con orgoglio (sempre che anche questo non richieda pagamento) i miei oggetti, la mia collezione (infinita, sì) di dischi e cd, i miei libri, i ricordi di una vita.

Tutto ciò che ho costruito in quasi mezzo secolo col mio lavoro indipendente e che nessuno mi può togliere, nonostante le teorie del minimalismo e le Marie Kondo. Sì, le amo, ma sempre con giudizio. Come per la tecnologia: la studio, la abbraccio, la vivo, ma senza farne ideologia.

Nel frattempo, gli entusiasti della tecnologia e del progresso – amici e conoscenti “educati e borghesi” con cui confrontarsi senza preconcetti sta sempre diventando più difficile perchè il confine tra parlare e definirti complottista, trumpiano, putiniano, selvaggio passatista, fascista è a portata di mano e – mi dicono che è meraviglioso. Che è il progresso. Che è comodo. Che non devi faticare. Basta pagare per tutto, e tutto è a portata di click. Non importa se in realtà non possediamo più nulla. Non importa se, alla fine, non decidiamo più noi.

E forse un giorno, mentre staremo versando la nostra consueta quota mensile per l’accesso alla vita, qualcuno ci chiederà con aria ingenua: “Tu ce l’hai l’abbonamento per vivere in questa società? Perché senza quello non puoi più partecipare alla vita civile. Niente conto in banca, niente documenti, niente diritti. Sei solo un utente scaduto.”