C’è qualcosa di notoriamente e tristemente italiano nella tragedia della Costa Concordia. La ricerca del colpevole, il fiume di parole che inonda tutti i mezzi di stampa, l’accanimento mediatico, il giornalismo alla caccia ossessionante dello scoop, della dichiarazione ad effetto, del testimone oculare e l’interesse morboso delle trasmissioni tv che tra un applauso, uno spot e una televendita pontificano sempre su cosa sia giusto e cosa sbagliato e passano come se nulla fosse dalle immagini della Concordia al delitto di Avetrana, da come ci vestiremo quest’estate fino alla storia d’amore tra Pato e Marina Berlusconi.
In questo misto di dolore e commozione, scoop e gossip, plastici e psicanalisti, Studio Aperto, Porta a Porta, Arena e altri talk show sono sempre maestri. È il giornalismo di oggi: dove c’è la notizia (e fin qui nulla ci piove) ma poi si scava senza troppi scrupoli su tutto quello che c’è attorno. Si crea il clamore anche quando la notizia non c’è. È la tv di oggi, quella dove la7, rete commerciale in teoria legata agli introiti degli spot, a poche ore dalla tragedia cancella la trasmissione della Guzzanti (che paradossalmente si intitolava “The show must go off”), mentre la Rai non fa calare il sipario di “Ballando sotto le stelle”. Punti di vista.
Le tragedie in mare nascondono sempre qualcosa di epico e doloroso e, come in questo caso, riportano indietro la memoria.
Mi è venuto in mente il Moby Prince, di cui ancora oggi alzi la mano chi ha capito il motivo del naufragio, il Titanic, l’Andrea Doria. Tragedie diversissime ma unite da un sottile filo. Mi è venuta in mente la circostanza della bottiglia che non si è rotta al varo della lussuosa nave, dell’incidente nel porto di Palermo, del venerdì 13. Insomma la fantasia e le coincidenze in questi casi non hanno limiti.
Posto ed accertato (ma lo potrà dire solo la magistratura) che il comandante Schettino sia colpevole di quella lunga lista di imputazioni che pendono sul suo capo (dall’abbandono della nave al ritardo nell’sos, dalla navigazione sottocosta ad altre clamorose iniziative personali), appurato che i dialoghi sono diventati di dominio pubblico prima della fine delle indagini (non vi sembra una cosa gravissima?), ci si chiede se debbano esistere sempre i buoni e i cattivi in questa povera, anzi poverissima Italia.
Proviamo a leggere l’evento senza travestirci da esperti di navigazione e di salvataggio, senza dimenticare il dolore delle vittime, un viaggio destinato a segnare la vita di tante persone, senza dimenticare le responsabilità di chi dovrà pagare per le proprie colpe: salvare da una nave di quelle dimensioni, durante la notte, 4 mila mila persone non mi pare un dato da poco.
Questo è quello che è accaduto, più di ogni altra filosofia, più di ogni altro ragionamento.
Un altro elemento, che vorrei sottoporvi. È sempre e solo colpa dell’equipaggio? E se questo fosse giusto, i passeggeri di ogni mezzo di trasporto (noi per primi, quando va “in scena” la spiegazione delle norme di sicurezza in aereo) si interessano mai delle disposizioni e dei comportamenti più utili al salvataggio? Rispettano la priorità che a salvarsi siano prima di tutti donne e bambini? Queste domande “terribili” le ho inserite dentro il ragionamento perché credo che, di fronte a un evento così tragico e improvviso, pochi hanno messo in conto l’elemento di paura, terrore, emozione e quant’altro in ogni uomo a bordo?
Ma ripeto, cercare tutte le colpevolezze, è inutile. Come nelle alluvioni, come nei terremoti, quando ci sono drammi di questa portata, è praticamente impossibile che i soccorsi siano impeccabili e che le persone siano fredde e razionali. Ognuno vorrebbe fare di più. È praticamente impossibile prepararsi perfettamente, “a secco”, a gestire l’imprevedibilità. I protagonisti sono sempre uomini, con emozioni che schizzano inesorabilmente in picchi ingestibili tra paura, terrore, incubi e fobie. Un turbine ingestibile a caldo. Un’imprevedibilità che a tavolino non puoi conoscere.
Oggi come oggi non si ha certezza di nulla. Ce lo ha insegnato il Titanic ai suoi tempi, ce lo ha confermato la Concordia. L’elemento umano conta troppo, a dispetto della tecnologia, nonostante l’idea di totale efficienza e impeccabilità di qualsiasi dispositivo, nonostante la tecnica pensi di aver raggiunto l’apice. Ma l’elemento umano ha anche i suoi limiti. L’uomo, in poche parole, è sempre “faber fortunae suae”.
Finito il fiume di parole della Concordia, comincerà un altro “fiume di parole”. Ed è facile riportare la mente a una canzone vinta a Sanremo da un duo, i Jalisse, di cui, dopo il trionfo non si seppe più nulla. Comincerà il fiume di parole del Festival.
Tra qualche giorno o settimana, come per i Jalisse, non si sentirà più parlare di questa tragedia.
Tutto ricomincerà come prima e penseremo, sempre con l’aiuto dei potenti mezzi della nostra stampa bravi ad orientare la nostra attenzione, a discutere se sarà meglio la canzone di Dolcenera o di Bersani, l’abito della Bertè o l’ultima battuta di Gianni Morandi. Anzi, per dirla tutta, siamo già troppo stanchi di parlare di Schettino, della Concordia. Ci vuole un altro evento che possa riempire le nostre giornate, certe trasmissioni e certi commenti, magari trovare nuove colpe e nuovi miti con cui accanirci o sognare.