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Un giorno a Tallin
Una sera a Tallin
Una partenza per Roma
Sveglia alle 7, ansia di volo. Il taxi notifica che è in arrivo. Ma come, non è presto? Poi mi spiegherà che è normale che l’avviso parta.
Sono a casa di mamma. Le sere prima della partenza amo starle vicino e sacrificarmi in quel letto a mezza piazza della mia infanzia versione moderna di quello che fu di Padre Pio, come dice una mia amica. Te ne compro uno nuovo, lei tenta di riportarmi a domicilio con promesse roboanti. Ma’ ho 167 anni, ma ti pare che debba tornare a dormire qui?! E vabbè. Ma quindi parti, ma dove parti? A Roma. Fa freddo, vuoi le calze di lana? E attento a questo covid. Per lei qualsiasi luogo oltre Sanluri è freddo e impervio. Appena le dico Helsinki – secondo me non ha chiaro dove sia ma farà ricerche su google – mi chiede come sempre che ci fai così lontano? Domanda classica di mio padre. Eredità. Ma domani qui c’è la riunione del condominio. Mamma, andrò all prossima, fatemi sapere cosa si è deciso.
Mentre preparo il bagaglio sono alla terza sudata. Fottuta ansia. Tosse da asma. Ho preparato tutto, viaggio solo con uno zaino. Si chiama backpack, pare sia la svolta del viaggiatore ossessivo compulsivo, sempre alla ricerca di soluzioni ottimali – oddio il linguaggio da imbruttito milanese – non è quello del mio Cammino di Santiago ma mi evita il trolley e lo zaino. Una combo che non sopporto più.
Mi metto tutto sulle spalle. Scelgo accuratamente cosa portare per evitare pesi inutili. Provo e riprovo, chiude!
Il taxi è puntualissimo, un minivan da 8 posti. Chiacchiero con l’autista. Sorrido per il tanto spazio a disposizione, quale onore? Mi sento un dj superstar che va al suo concerto a Miami, mi ricordo poi che sono un povero cristo che rompe la noia locale a suon di viaggi per lavoro e per piacere e deve arrivare solo all’aeroporto di Elmas.
All’aeroporto c’è poca gente. Vuole l’aranciata e il menù? No solo acqua, cornetto e cappuccino. Sono cinque euro. Non so se dentro abbiano messo anche il sacro graal. Un tipo si avvicina al banco e chiede una tisana allo zenzero. Nulla, rispondono. E ridono discutendo dello zenzero e della sua richiesta in aumento.
Volotea, prime tensioni all’imbarco. Quelli senza priorità capitano sempre nella fila priorità e se ne accorgono dopo con scenate da mancato rigore allo stadio Olimpico. Quello che elegantissimi e professionali saltano la fila con volto spensierato con il cellulare sempre in chiamata per affari. Strano, gli imbarchi hanno due file, due soluzioni. A o B. Con o senza priorità. Anche perché se non paghi non hai priorità. Difficile sbagliare.
Ancora polemiche nell’aria. Prima non era così. Prima i treni arrivavano in orario. Prima Alitalia. Prima Dc, Pci e Psi. Effettivamente nel volo Cagliari/Roma la truppa passeggeri è più burocratica di quello milanese dove tra manager, ceo di se stessi, stilisti, influencer da shopping milanese e bocconiani sbarbati la parola d’ordine è silenzio ed efficienza.
Le frasi si sprecano nell’aria mentre Ryanair annuncia che l’ultimo imbarco per dovenonricordo. Il pubblico nonpriority potrebbe scatenarsi in un “onestahhh” da un momento all’altro perché quei priority non rispettano la democrazia.
Le polemiche continuano a bordo. Un giovane steward, appena termina una dettagliata spiegazione a passeggeri con un bambino – lodd a lui per tanta professionalità – viene impallinato da passeggeri di mezza età che sfogano rabbie mattutine e giocano sulla sua cortesia e adolescenzialità. Nessuno mi ha mai detto che devo lasciare il trolley qui, ma come mai ho pagato venti euro per i bagagli e ora ne devo mettere uno di 45 kg al check in.
Lui si prodiga per rispondere a tutti, respira e argomenta con parole legggere, ma le vedove di Alitalia siano tante.
Vorrei dirgli sei stato bravo e mettere una recensione. Dirgli che non tutti i viaggiatori sono così, che ce ne son altri che capiscono e passano avanti. Che non è colpa tua, mia, di Alitalia o Volotea. Basta che sorridi e mi tratti bene e saremo felici.
Il mio battesimo del volo con Volotea è iniziato: per ora professionalità e gentilezza, cambi volo su web – e niente telefonate di due giorni al call center e orecchie bollenti – nonostante certi passeggeri a bordo se la prendano con lavoranti a bordo, trattandoli da schiavi di qualche galeone di inizio ottocento. Prima o poi uscirà qualcuno che chiederà di lustrargli le scarpe e fargli le unghie.
Saluto un caro amico che si immerge nella lettura. La mia vicina di fila ha gli occhiali con montatura sottile, gilet e camicia con fiori viola e rossi. Si presenta con un mi scusi deciso e monotonale, ora mi sento in colpa per essere al mio posto e perché non ho capito da lontano che quel posto finestrino fosse il suo. Mi sento in colpa di esistere, signora! Altro tono del ragazzo col capello lungo che occuperà il posto al centro che chiede la cortesia per accedere alla fila.
Ci vuol pazienza, sempre. Soprattutto se si è viaggiatori e se si parte di mattina verso Roma.
Un giorno a Siviglia
Un giorno a Siviglia. Dal Portogallo alla Spagna cambia tutto e siamo a un’ora di auto. Lingua, sensazioni, anima.
Siviglia è sempre bellissima! Mi stupisco ogni volta che ci passo.
Una frase di Antonio Gala recita che recita :” Il male non è che i sivigliani pensano che hanno la città più bella del mondo… il peggio è che può essere che hanno ragione”. La capitale andalusa ha veramente un “colore” speciale.
Certo ci sono città nel mondo anche più belle, ma quel che rende preziosa Siviglia è sicuramente il sole, il caldo e la gente.
E mi son bastate poche ore per riannodare ricordi. Sembra sia sempre il momento di una “Cervecita”, i bar sono frequentatissimi sempre, c’è rumore, movimento, dinamismo.
Il centro storico è enorme. C’è la cattedrale gotica più grande del mondo che non capisci mai da dove fotografare, di fianco c’è la Giralda (simbolo della città) e l’Alcazar reale (una fortezza araba costruita durante la dominazione araba in città), poco più in la c’è l’Archivio delle Indie, altro punto di interesse in città.
E poi i profumi: d’azahar (il profumo dei fiori di arancio) oppure d’incenso.
Le luci della sera, la campana della metro che passa tra vie piene di gente, il primo fresco che fa l’occhiolino con educazione all’inverno, i monumenti che si stagliano davanti, i camerieri che preparano le tapas in bar affollati fino a tardi, il rumore di un flamenco che si perde nell’aria.
Sono qui, in una città bellissima e vedo uno spoiler di Natale con il fumo che sale dai venditori di castagne e i mercatini già aperti. Sono qui, perduto e ritrovati, a chiedermi sempre perché debba partire ma poi voler tornare a casa. Per aver una scusa per ripartire domani.
“Ogni viaggio lo vivi tre volte: quando lo sogni, quando lo vivi e quando lo ricordi”
Ma ora son stanco, un pochino di siesta e poi si riparte!
Un giorno a Lagos, in Portogallo
Un giorno a Lagos, Portogallo è già finito.
Controllo che mezzi ci sono da Lagos a Faro: il pullman Alsa parte troppo presto, ma per fortuna posso anche scegliere il treno – non è mai scontato che ci sia la ferrovia in certe zone di Spagna o Portogallo – e anche l’orario è perfetto: le 11:14!
Riesco a fare ancora un ultimo giro veloce a Lagos puntando sulla costa davanti davanti alla città vecchia. Scopro – mia pigrizia nel non studiarmi mai tropppo le destinazioni e andare a caso per non dire altro – che ci sono quattro splendide spiagge Meia Praia, Praia Dona Ana, Praia do Camilo e da Batata. Sono tutte circondate da scogliere e anfratti le rendono ancora più belle e si trovano all’estuario di Lagos. Scendo attraverso una ripida scalinata e lascio la borsa a distanza, controllandola ogni tanto. Ma mi faccio la domanda: chi mai me la vuol prendere? Cioè ho oramai la sensazione di essere sempre a casa e che ci sia un patto tacito tra viaggiatori e luoghi: ci si rispetta a vicenda. Questo è adolescentesco, lo so, inconcepibile nei tempi dell’odio social e del “ti fotto io prima che mi fotta tu” ma è così.
Il clima è splendido, ci sono diciotto gradi, mollo il giubbotto in borsa e resto in maglietta. Più di una persona sta facendo il bagno o prendendo il sole.
Continuo a controllare la data: siamo al 10 novembre (che data!) e qui si gira ancora in pantaloncini e maglietta. Tornando nel centro di Lagos mi accorgo che tutti son vestiti estivi.
Mi scuso se vi ho raccontato poco di Lagos: avete ragione! Una cittadina squisitamente portoghese, strade acciotolate, ristorantini, case basse e bianche e un’atmosfera rilassante che culmina con una zona più silenziosa e riservata, quasi in segno di rispetto, vicino alla chiesa di Sant’Antonio dove ieri notte passeggiavo curiosando dentro le case. C’è un giusto connubio tra negozi occidentali, gli immancabili tezenis, ale hop, eccetera i locali notturni – tanti – e i semplici ristorantini locali,.
Il fronte del porto prosegue con altri bar e ristoranti, insieme ai gazebo dei tour in partenza: ce ne son davvero tanti! Uno scrive WE ARE LOCAL forse per attirare l’attenzione su un dna di Lagos.
A Lagos c’è un estuario che si snoda per l’intera lunghezza della città dividendola in qualche modo con un ponte automatico sotto cui partono barche più o meno grandi verso l’oceano. Poi, le spiagge. Tante e bellissime. E il mercato comunale, dove ascoltare – e non capire – le urla e le contrattazioni sui banchi o vedere arrivare un grande pesce spada.
Cammino per mezz’ora prima di arrivare alla piccola stazione dei treni. Due binari, di cui uno è un vecchio mezzo diesel diretto proprio a Faro, come sulla scritta. Faccio il biglietto e ho tempo per una colazione fuoriorario al vicino bar, guardando l’orologio: al banco c’è un ragazzo che ci mette un’eternità a sfornarne un cappuccino tanto curato, con aggiunte di latte e cacao e sapienti dosaggi – lo guardo con la coda dell’occhio – quanto bollente. Anzi di più. Prendo anche un croissant soffice, senza nulla dentro. Mollica. La sua collega parla un inglese scolastico e perfetto. Anche se il binario è a un minuto di camminata non riesco a finire tutto. Il cappuccino, che poi sa di caffellatte, è davvero caldo!
Il doppio vagone parte in perfetto orario, sedili puliti e dentro tanto silenzio. Per diversi minuti restiamo gomito a gomito con l’oceano, spiagge lunghe e bianchissime. Poi ci lasciamo, come due amanti che si promettono amore eterno. La campagna. Case basse, bianche, campi coltivati e stazioncine. Studenti e pochi viaggiatori come me. Il trenino sbuffa ancora per un po’, suona la sirena e continua il suo onesto lavoro.
Inizio a guardare i messaggi di auguri. Sono tantissimi e già vorrei scrivere GRAZIE in una grande mongolfiera che passa sulle città. Dicono che col tempo consideri il tuo compleanno come un giorno normale. Viaggiare, vedere, capire. Sentire e innamorarsi. Ecco la mia normalità.
Due ore e arriviamo a Faro, un’altra avventura comincia!
Dall’Andalusia all’Argarve
Prendere un pullman Alsa significa capire quanto sia lo scarto tra i nostri servizi pubblici regionali e il resto del mondo. Mezzi puliti, confortevoli, prenotazione chiara e tanti servizi a bordo. Adoro fare i confronti e cerco sempre di domandarmi perchè sia così complicato fare le cose per bene nel mio paese. Ma è un pensiero passeggero, prima di inerpicarmi in stupide polemiche.
Alsa la conosco bene: mi ha scarrozzato in giro per la Spagna per anni. Mi ha regalato paesi e scorci di questo smisurato e bel paese portandomi da città a città, con viaggi lunghissimi ma mai pesanti
Parto da Siviglia di buon mattino e lascio la città destinazione Huelva. Sotto lo sguardo della Sierra morena, piccole città e sentieri costruiscono uno scenario naturalistico che regala tranquillità. Fosse per me mi fermerei per ogni cittadina, anche in una panchina a osservare la gente, ma la mia direzione è altrove. Il Portogallo, ebbene sì, vi ho svelato il segreto. Giusto per non annoiarmi.
Mentre l’autista guida sicuro verso la prossima città mi godo campagne, filari di viti, angoli di mondo. Leggo i nomi delle città e sembrano tutti rimandare a suoni antichi.
A bordo del bus c’è un religioso silenzio finché non sale e si siede vicino a me una robusta ragazza portoghese, vestita con panta aderenti, che inizia ad ascoltare i video su Youtube ad alto volume. Io e un altro passeggero la fissiamo, finché non desiste, abbassa quel vociare digitale e si sposta.
Il viaggio scorre tranquillo. Le fermate alternano anonimi parcheggi limitrofi a centri commerciali a immersioni in paesi che hanno la costante delle case basse e del bianco splendente. Il cielo è azzurro, stacca perfetto col bianco, e finalmente l’oceano è riapparso. Non so perché ma questo paesaggio ma mi strappa un sorriso.
Tre ore di viaggio da est a ovest. Al confine col Portogallo un lunghissimo ponte sul Rio Guardiana introduce un cambio di paesaggio importante e anche di cartelli e scritte.
Uso il bagno, costa un euro, non ha sapone ma è pulito. Per centrare il cesso bisogna fare molta attenzione. Equilibrio possibile.
Ad Ayamonte sale una famiglia di italiani, mi pare piemontesi, con due figli piccoli che siedono proprio davanti a me. Sono gli unici che chiacchierano. Lei mi sembra di origini polacche, lui la sfotte. Mi accompagneranno fino a Portimaio per poi scendere. Ad Albufeira c’è una sosta di dieci minuti, l’autista dichiara candidamente di dover andare in bagno e suggerisce di fare lo stesso. Il tempo si è rallentato: siamo passati a meno uno di fuso orario. Ancora paesini bianchissimi, piccole case e campagne. Il sole e il cielo azzurro sono le certezze, come l’oceano in lontananza.
Nel mentre scrivo, leggo, rispondo alle mail, butto giù un’idea di storia chiedendomi mille perchè, chiudo qualche messaggio e fotografo cose inutili: un ponte, una casa lontana, il mio notes. Un amico mi suggerisce una trolley zaino da comprarmi. Altri paesi scorrono come frammenti di fogli bianchi incollati a un quadro e la domanda che mi faccio spesso è “come sarebbe vivere da queste parti?”.
Faro e poi Lagos, la mia destinazione. Ultima fermata di questo viaggio. Scendo, saluto e ringrazio l’autista. Lo fanno tutti. L’educazione normale mi stupisce. Mi rassicura vedere la borsa, l’ultima, e mi chiedo poi come sia possibile che nessuno ti rubi il bagaglio nonostante le fermate. Mistero irrisolto.
Le stazioni sono pulite e sempre piene di storie possibili e personaggi che sarebbe bello conoscere. Fanno viaggi lunghi, portano tristezza e preoccupazione tra gli occhi. Poi ci sono quelli che ti ispirano un gran senso di libertà, giovani o meno, zaino in spalla e pantaloncini corti per tutto l’anno. I classici viaggiatori nomadi. Facce diverse.
Io, giubbotto marta e felpa, mi sento un po’ stupido in questo angolo a ovest di Europa dove l’estate continua a stiracchiarsi. C’è un canale che porta al mare, i chioschi con i tour in offerta e un mercatino di abiti dove un bimbo si nasconde tra pantaloni e gonne.
Cerco un ristorante, il primo che vedo. Vicino a me una coppia ha appena concluso il pranzo e si alza. Ancora più in là un uomo con la pelle abbronzata, la barba bianca. Ha le fattezze di uomo di mare e gioca con una sigaretta. Il suo sguardo è perso, di fronte a un bicchiere di vino. Entrano anche degli olandesi: chiedono coca zero. Il menù è scritto in portoghese, spagnolo, inglese, tedesco e olandese. Nessun segno dell’italiano: non so perchè ma mi ispira been questa mancanza.
Chiedo un petto pollo e un’onesta insalata. Immancabili sono patate fritte. Da bere un bicchiere di vino tinto e acqua. Poi olive e pane che non sono mai automatici: si pagano a parte. Il cameriere chiede se il pollo lo voglia piti piti o meno, che vuol dire speziato. No, e niente salse, rispondo. Un espresso sul finale mentre nella radio va Robert Miles e Children.
Conosco a memoria la cucina portoghese e ogni volta assaggio e mangio quello che più mi ispira, senza vergogna di tornare nel ristorante italiano o presunto tale di essere pateticamente monotono. Pollo, insalate, carne. Birra o vino.
Tutto va lento, anche il vigile che controlla i parcheggi sembra soprassedere su chi sgarra. Nel centro storico si alternano un negozio di intimo tezenis con unsa gelateria artigiana, aley hop e i suoi oggetti e la bottega dei tessuti che potrebbe emozionare mamme datate e nonne ancora più datate. Vecchio emozionante e banalissimo nuovo senz’anima, nella sua riproposizione continua, vanno a braccetto. Non so perchè ma quando vedo queste catene resto sempre perplesso. E’ come se rubassero la bellezza ancestrale dei posti, come le auto davanti ai monumenti, come il reggaeton a tradimento in spiaggia. Quelle stonature.
Ancora turisti, alcuni americani: portano camicione floreali improponibili da film che raccontano le avventure degli studenti universitari. Tanti anziani, forse anche questa è una destinazione per la terza età. E hanno ragione.
Dall’Andalusia all’Algarve cambiano le sensazioni, la lingua, le bandiere ma la magia resta quella.
Il clima non mi fa credere che a un’ora di volo ci sia un inverno in arrivo e soprattutto ci siano posti dove stress e traffico rovinano la nostra esistenza mentre qui, in questo remoto paesino del Portogallo, tutto ha un’essenza umana.
Una corsa al tramonto a Lagos, in Portogallo
Corro fino a mare attraversando un bel quartiere residenziale. Il sole scende veloce, le ville si colorano di arancio. Tutte eleganti, curate, con i giardini ordinati e le intestazioni nelle mattonelle bianche e azzurre.
Accelero il passo ma quando arrivo in spiaggia il sole è appena andato via.
Mi sento come un fedele che ha tardato al passaggio di sant’efisio. Che poi non mi sono accorto di essere finito in un’altra piccola città a sud-ovest del centro, un posto chiamato Amejeira.
La Praia de Porto Mós, così si chiama la spiaggia, è circondata da alte scogliere, una lunga lingua di sabbia soffice, dorata e bagnata.
Ci sono gli amanti del tramonto, quelli che appaiono tardi. Chi si raccoglie in meditazione, chi corre col cane, chi legge, una cartolina d’estate infinita. Controllo il calendario: è 9 novembre!
Un baretto vicino diffonde musica anni 80. Ha tutta l’aria di essere vicino alla chiusura e i camerieri pregano con lo sguardo che i pochi clienti si affrettino a scolarsi le ultime birre Super Bock insieme alle immancabili olive e patatine.
I colori cambiano e all’imbrunire, quando in spiaggia ci contiamo, si accendino le lampade di barche ancorate davanti. Spettacolo.
Prima mi faccio una foto e stilo un bilancio della giornata.
Ho disconnesso tutto, tranne che l’anima.
Ho pensato che non ci sia nessuna fretta e ansia doverosa e le cose importanti della vita restino poche.
Ho iniziato ad amare l’asincronicità.
Ho afferrato un’estate che stiracchiava per le strade di un paesino sconosciuto ai più.
Ho meditato.
Ho letto e scritto tantissimo.
Ho fatto quasi trecento chilometri.
Ho corso fino all’oceano.
C’è una strana energia quando sei lontano.
Se non fosse stato per una donna a cui ho chiesto l’ora nemmeno me ne sarei accorto. Ho rimesso indietro l’orologio, c’è il fuso orario, e ora parlo dal futuro.
Siviglia… e poi?
Svegliarsi in un’altra città, l’anima ringrazia.
Il volo Cagliari-Sivilla lo faccio vicino a una rumorosa famiglia di paese. Il terrore dei bimbi al decollo, il padre che provava a rassicurarli, le chiacchiere ad altra voce e i movimenti sui sedili. Una ragazzina seduta vicina a me con gli occhi tristi, ripresa al decollo dai genitori per non usare le cuffie e stare attenta alle procedure d’imbarco. Tiene quello sguardo triste per tutte le due ore, chiede di andare in bagno allo steward poi, non si sa perchè, rinuncia.
Fuori è buio, poco da fotografare. Le Airpods 2 mi isolano dal caos e dagli annunci di panini, bevande calde e fredde, lotterie e gratta e vinci. La famiglia vicino a me ulula. Con uno sguardo fulmino i bimbi e il papà che per l’ennesima volta sbattono sul sedile. Faccio la parte del cattivo, come mai accade. La ragazzina vicino mi guarda e quasi si vergogna. Sembra volermi dire, hai visto con chi cavolo devo viaggiare? Almeno tu sei solo.
Arriverò tardi e questo mi mette ansia. Ho sempre paura che non ci sia nessuno in albergo, ma poi penso che sarebbe bello vagare la notte in cerca di alloggio. Ho preso treni notturni e dormito in stazioni ed aeroporti, dov’è il guaio? Solo vincere la pigrizia e la paura.
Prendere un aereo significa risolvere nodi. Parole che non arrivano, progetti a metà, frasi che non ci piacciono. O finire libri che ti accompagnano lenti per settimane in cui trovi la tua vita tra le righe. Come la Simmetria dei desideri, consigliato da Valeria, collega del corso di scrittura Baskerville. Alla fine non ci siamo mai visti ma la sento più vicina di persone che vedo sempre. Quando arriva il momento di definire una persona amica? Me lo chiedo sempre. Quale episodio lo scatena.
22:55 le prime luci di Siviglia dall’aereo. Aspetto che l’allegra brigata scenda. Infilo le cuffie, modalità isolamento e continuo a leggere qualche minuto. Mancano dieci pagine alla fine del libro. Vorrei continuare ma capisco che tenere il kindle sulla pista non è il massimo. L’aereo parcheggia lontano, c’è da fare un po’ di strada a piedi. I voli che arrivano o vanno a Cagliari sembrano sempre nascosti e periferici nelle logiche aeroportuali. Come a dire: siamo gli ultimi.
Bienvenidos a Sevilla. Un giocatore di cui non ricordo il nome con una coppa mi strappa un sorriso. Cominciano i paragoni: quando arrivo a Cagliari pubblicità locali e autocelebrazioni miste. Due palle, ma solo per me che le vedo sempre. Immagino i turisti come si emozionino per quello spoiler di immagini e compra sardo che è buono e sano.
La fermata del bus è a due passi. Ci vogliono 40 minuti per arrivare in Plaza de Armas, e con meno di dieci minuti di cammino sarò all’alloggio.
Cerco dove fare i biglietti, trovo la macchinetta, selezionando la lingua spagnolo per togliere ruggine alla mia mediocre conoscenza. Infilo con fiducia la banconota da 5 euro, arriva il resto ma del biglietto nessuna traccia. Provo e riprovo ma il display si è già aggiornato alla pagina principale. Sconfitto, vado sull’altra macchina e riesco a stampare. Comincio il viaggio a -4 euro e mi prometto di riscrivere alla compagnia di trasporti Tussam e magari, come in passato, aver risposta positiva e poter riferire a tutti come a Siviglia e in giro del mondo il servizio clienti è efficiente. E mi metto per 4 euro? Questione di principio!
Tra venti minuti arriva il bus. La fermata si affolla e il mezzo si riempie all’inverosimile. Prendo il posto comodo dietro l’autista.
INDOSSARE LA MASCHERINA E EVITARE DI PARLARE PER MOTIVI DI SALUTE. Rido e non sono l’unico.
Siviglia è vuota. Rivedo in notturna luoghi e strade che ho già percorso, il canale Alfonso XIII, la Torre dell’Oro, la Plaza de Toros.
Scendo all’ultima fermata, Plaza de Armas, la grande stazione dei bus. Mi accorgo che nel display c’era scritto COMPLETO, SCUSATE. Mi sorprende quella parola cortese scritta in lettere digitali.
Alla stazione ci son persone sedute in attesa delle prime partenze del mattino. Qualcuno dorme, qualche altro legge. Un uomo chiede indicazioni per Cordova.
Bastano dieci minuti per arrivare al bnb Naranjo, in completa solitudine. Una vecchia pensione con un’insegna franchista, i bar con le sedie riordinate, un fast food dove gli addetti stanno facendo le pulizie e servono l’ultimo panino.
Il mio alloggio sta nel Casco Antico, il centro storico, dentro un dedalo di stradine illuminate, pulite e costeggiate da bei palazzi chiari, ravvivati dalla luce giallognola delle lampade, con ingressi con stile arabeggiante. Il rumore dei miei passi rompe il silenzio perfetto della notte andalusa. Nessuna movida, nessun bar che tira tardi.
C’è un ragazzo sui trent’anni ad accogliermi. “La stanza sta al terzo piano, ti ho dato una matrimoniale, l’unica cosa è che non abbiamo ascensore”. Nessun problema. Gli interni sono retrò, quadri terrificanti, sedie polverose, arazzi di dubbio valore, tutto è la rappresentazione degli alberghi che amo, quelli un po’ raffazzonati – solite prese attaccate a vanvera e collegamenti casuali – ma che mi illudono che il tempo non sia passato. Magia a confronto di anonimi hotel di lusso che potresti trovare in qualsiasi città e non ti raccontano niente.
La stanza non è molto spaziosa. C’è pure il bidet, e questo mi strappa un sorriso. Mi chiedo come mai, non ho voglia di approfondire questa curiosa novità.
Vorrei dormire, ho la sveglia alle sette e mezza, ci riesco a tratti: una malefica spia del televisore mi tiene sveglio. Non ho la forza di prendermi la benda per gli occhi, mi rintanano nelle coperte. La spia azzurra continua a infastidirmi. Prima o poi scriverò un trattato sulla mancanza di buio nelle stanze d’albergo.
La mattina anticipo la sveglia. L’ansia di perdere l’autobus mi dà questo effetto ansiogeno. Scendo veloce con il solito anticipo esagerato, la stazione sta a mezz’ora di camminata. Controllo e ricontrollo il biglietto: strano che il bus non parta da Plaza de Armas. Le ricerche su google confermano: parte da Santa Justa. Metto Google maps e calcolo i tempi e come incastrare la colazione, quasi fossi in ritardo. Mi stresso inutilmente pensando di farla non appena mancheranno meno di dieci minuti.
Siviglia si sta risvegliando: fa freddo, si affollano i primi caffè, le luci del sole danno altra dignità ai palazzi del centro storico, un profumo passeggero di shisha, i ragazzi infreddoliti che vanno a scuola e i pullman che cominciano a ingoiare e vomitare gente. Ogni volta il Metropol Parasol mi fa pensare a un grande waffle. Questa bizzarra costruzione di colossali dimensioni, è la più grande in legno al mondo. Inserita nel contesto urbano rompe la narrazione.
La camminata prosegue contando con quanto anticipo arriverò. Rivedo strade e bar che ho già frequentato in passato.
Mancano 8 minuti, dopo aver saltato più bar, decido che questo sarà il mio. Si chiama Siete Villas e il banconiere, con una camicia bianca e pochi capelli sui lati, mi saluta con un raggiante “bon dia” e una frase che penso voglia dire “cosa posso prepararle?”. Io ho già il copione: cappuccino, zumo de naranja e pan y tomate. Passano tre giri d’orologio e la mia colazione sul tavolo. Scrivo qualcosa. In tv le notizie del mattino girano con la possibile riforma delle imposte sui redditi. O così mi sembra. Perchè son capace di prendere granchi colossali quando traduco. Il pane soffice e riscaldato con il pomodoro è una gioia semplice che mi fa ritrovare la mia Spagna. Cerco il bagno per potermi lavare i denti. La mia lotta quotidiana con l’apparecchio è cominciata: lo spazzolino elettrico va a tratti. Mi chiedo se sia colpa della pressione che faccio sui denti o delle batterie scariche. Mi ricorda quando faccio benzina e la pompa si blocca, forse perché va a contatto con il carburante e allora si innesta questa strategia di sicurezza. Pago 4 euro e mi sembra un prezzo assolutamente onesto.
Quando esco dal bar, l’aria si è fatta meno fresca. Allora inizio a connettere che il viaggio è iniziato, leggerezza e sentirsi sempre a casa, ovunque sia. Ma anche un’altra sensazione: di esserci da molto più che poche ore. Vi è mai successo?
Arrivo alla stazione di Santa Justa. Vedo un bus solitario dell’Alsa. Mi chiedo se sia proprio quello il mio. Ricontrollo ancora. Cerco qualche gruppo di discussione sulla fermata. A destra dell’uscita della stazione. Qualche minuto e si materializza l’autista. Accende il motore e apre il bagaglio. Mostro il biglietto, mi risponde “Nicola!”e con l’ennesimo sorriso gratis mi ricorda che sono al posto 18. Mi disorienta trovare persone comunicative, vorrei uscire dal mio spagnolo elementare e cogliere le sfumature delle chiacchierate. Sono rassicurato: è il pullman giusto. Ho preso tante volte l’Alsa girando per la Spagna e mi son innamorato dei pullman. Puliti, efficienti e con costi umani. Anche questo lo è. Per chiudere il capitolo gaffe il pullman, dopo la partenza, torna in Plaza de Armas, a due passi dal bnb, dove fa un’altra fermata. Mi sarei risparmiato mezz’ora di camminata, ma va bene. Non mi sarei goduto Siviglia di mattina. Gaffe, errori, controsensi.
Il viaggio è anche questo. Arrivederci Siviglia. Prossima destinazione…
I viaggi ci fanno star bene
Qualche giorno fa era la giornata del benessere mentale, per ricordarci che la salute non è solo quella del corpo o del conto in banca o il successo a costo di calpestare tutto e tutti.
I viaggi non curano malattie, non fanno miracoli, ma offrono nuove visioni e spunti per vivere meglio, per uscire dalla provincialità e dell’invidia. E poi qualcosa ancora: la comprensione delle differenze, il rispetto e la sensibilità verso il prossimo.