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Da Tallin a Helsinki

E da Tallin non te la fai un salto a Helsinki? Giuseppe Marcialis suggerisce l’ennesima avventura e allora è un attimo fare il higlietto per una nave Viking Line, chiamarlo traghetto è offensivo, e farsi due ore e mezzo nello scuro Mar Baltico.
Dimentico le vergognose carrette del mare italiche, la nave è un portento: saloni, lounge bar, zone bimbi, pulizia e cura. Un viaggio perfetto – qualcuno ha preso pure la cabina – e la capitale finlandese si svela fai primi isolotti. Io sorrido, un’altra bandierina, il posto più a nord dove son stato. E Helsinki si rivela gran sorpresa. “Non c’è niente”, “solo freddo” mi avevano detto. “È bruttina”, avevano rincarato altri. Niente di più sbagliato. Helsinki è una piccola gemma tutta da scoprire e basta immergersi nella quotidiana ordinata e silenziosa di questo popolo misterioso di pelle chiarissima per coglierne il senso.
Poche ore di luce, il sole è optional come gli alzacristalli sulle vecchie panda, il mio tour de force prevede pero’ un giro di esplorazione veloce che tocchi almeno i punti più importanti e si prenda il tempo per fermarsi, lavorare e pensare in qualche caffè per caso.
Il mercato, prima tappa. Capita sul tragitto ed è impossibile non passarci visto che sta proprio vicino alle partenze dei traghetti per le isole. Dopo aver passeggiato tra le sue corsie e ammirato ogni bontà (salmone, cervo, aringhe, carne o chips di renna e via dicendo) mi godo una zuppa e con un pezzo di pane di segale sormontato da salmone, granchio o gamberetti, in uno dei tanti baretti. Prezzi alti, e questo sarà la costante di Helsinki! Fuori nell’area esterna, il Kauppatori, tanti banchetti con frutta, verdura, pesce fresco e piatti pronti tutti in stile nordico. Ma davvero la loro cucina fa così schifo? Solite idiozie!
A due passi, ma sono dieci minuti, la Cattedrale luterana e piazza del Senato, uno spazio armonioso e il bianco della chiesa quasi accieca i tanti turisti che affollano la zona. Salendo le sce ci si sente Rocky di terz’ordine ma merita: si gode una bella vista verso il fronte del porto!
Un salto alla Chiesa nella roccia dove di mezzo c’è un motivo musicale. È la chiesa che non ti aspetti nella città che non ti aspetti, appartata rispetto al centro, è scavata nella roccia tanto da non essere visibile all’esterno. Dentro, i contrasti la rendono diversa dalle altre, un rifugio riadattato, una enclave, tanto da essere una delle attrazioni più visitate. Sembra più una costruzione avveniristica che un luogo di culto. Il silenzio regna sovrano e l’atmosfera è intima, grazie anche al tanto legno.
Poi c’è Uspensi, Cattedrale ortodossa che domina questa parte di città e che può valere uno stop. Dopo aver visitato la cattedrale, passo a Katajanokka, quartiere residenziale con bei palazzi e scorci sul mare. Le luci di Natale disegnano geometrie di regali, renne, stelle. Lo shopping riunisce i finlandesi in un grande rito collettivo.
Raggiungo Kallio, il quartiere dei bar, che in questa zona si susseguono l’un l’altro senza praticamente soluzione di continuità. Potete andarci dopo cena, quando si riempiono e al loro interno scorrono fiumi di birra. Io ci passo prima, fedele al mio andar contro.
Il freddo pungente, siamo a meno tre, mi sfida. Le mani gelano, ogni punto scoperto punge e il cuore comincia a battere. Cerco un bar ma trovo una sfilza di locali esclusivi dove probabile che mi prendano per terrorista. Appena leggo Gallery mi sento rilassato. Ho bisogno di una pausa, subito!
(Continua)

Un giorno a Tallin

Tallin è una città che con un po’ di buona volontà, scarpe comode e pochi fronzoli, giri in un giorno.
Dopo una sontuosa colazione negli eleganti e tetri saloni del St Olav Hotel, fatta di salsicciotti, patate, uova, pomodori, olive, pane nero, marmellata di lamponi e cappuccino – non chiedetemi con quale ratio faccia questi accoppiamenti – punto alla collina di Toompea, dove si trova anche l’omonimo castello. Fa freddo, pioviggina e ci sono poche anime che si aggirano per la città e si perdono nel vicoli ciottolosi del centro dove le botteghe artigiane, gli uffici e le scuole ogni tanto nascondono ai turisti – per fortuna! – caffè solitari per trovare rifugio.
Prima tappa è la Cattedrale di Aleksandr Nevskij, una delle Chiese più imponenti della città. Leggo che non sia amata dagli estoni, in quanto è da sempre il simbolo della chiesa russa del paese e del potere dell’impero zarista. Infatti, dal 1944 al 1991 l’Estonia fece parte dell’Unione Sovietica, ma penso lo sappiate o andiamo maluccio. Ci sono 5 grandi cupole, al suo interno è custodita la campana più pesante della città, di ben 15 tonnellate!
Ogni volta che entro in una chiesa ortodossa sono sempre alla ricerca di particolari e differenze con quelle cattoliche, come l’assenza di banchi e la scelta dell’iconografia. Mi inebriano l’odore di incenso e i gesti lenti del prete. Un fedele accende una candela e la colloca in speciali candelabri rotondi disposti di fronte a ogni icona. Poi si segna più volte guardando l’icona, poi la bacia e vi appoggia la fronte per qualche secondo.
C’è un gruppo di donne e uomini che intonano un canto, penso sia un funerale. Ne ho conferma quando all’uscita una bara viene portata fuori da una vecchia auto adibita a carro funebre.
Proseguo facendo affidamento sul mio sesto senso per trovare un caffè vicino a un punto panoramico. Nalg ja janu cafè, così si chiama. Un salotto retrò, comode poltrone, lampadari, oggetti di altre epoche, dove sentirsi al caldo e bersi un bel caffè con una bionda banconiera al bar dallo sguardo di famme fatale di un qualche james bond. Nel parco vicino dei bimbi giocano a nascondino mentre una nonna spiega un giocattolo a forma di camion a una bambina. Dal loro vestiario penso stiano aspettando il bus per andare a sciare, non spiegherebbe tanta attrezzatura! Alla cassa il caffè costa 2 euro cinquanta, sorrido di buon grado, riprendo il cammino mentre la tipa sta cucinando qualche strana zuppa in un pentolone. Non mi stupirei che nel prossimo giro ci fossero dentro proprio i bimbi del parco!
C’è la vicina Chiesa di San Nicola, un vero e proprio museo d’arte medievale, dedicata al santo patrono protettore dei marinai e dei commercianti, uno dei luogi di culto tra i più antichi della città. Al mio ingresso ci son delle donne che stanno pulendo e sistemando gli oggetti sacri con una piccola catena di montaggio attenta. Si fermano e discutono, il tema potrebbe essere che Smac brillacciaio è in offerta speciale al market vicino.
Al suo interno un museo d’arte sacra, con meravigliose opere, principalmente del Tardo Medioevo. Mi affascina la “Danza macabra” di Bernt Notke, uno dei capolavori dell’arte estone (e sì, anche qui c’è arte)!
Scendo gli scalini e riprendo il centro storico da Via Pikk, la Strada Lunga, un strada antica e molto suggestiva, ricca di meravigliosi scorci in cui scattare qualche foto. Il silenzio e il camminare ordinato rende questa atmosfera molto particolare. Questa via è famosa per ospitare le sedi delle Gilde, ovvero le antiche corporazioni della città, un tempo frequentate dai rappresentanti di varie professioni. Non perdetevi la Gilda Maggiore al numero 17, e la Gilda S. Olaf, al civico 24, ovvero la più antica della città.
La Città Vecchia di Tallinn è dichiarata Patrimonio dell’Umanità UNESCO nel 1997. Qui potrete immergervi nell’atmosfera e nell’anima medievale della città. Le auto sono bandite, quindi non avete problemi, è ancora in vigore il motto “il pedone ha sempre ragione”.
Passo spesso, visto che sta vicino al mio albergo, nella Rajekoja Plats, il cuore della Città Vecchia e dove si trova il Municipio di Tallin, che oggi non svolge più alcun ruolo politico o amministrativo, ma viene ospita ricevimenti, cerimonio ed è la sede di un piccolo museo di storia della città. Ancora vicino c’è la Farmacia Raeapteek, una delle più antiche d’Europa ancora attive, il più vecchio esercizio commerciale di Tallinn e da ben dieci generazioni è gestita dalla famiglia Buchard! Costruita all’inizio del 1400, oltre agli arredi originali ha anche un piccolo museo. A solo un minuto si trova la via Vene, l’antica via dei mercanti russi, oggi ricca di botteghe e locali.
Entro in una via laterale che mi ispira poi scopro che sia il Passaggio di Santa Caterina, in estone Katariina käik (ho fatto copia e incolla), uno dei luoghi più affascinanti del centro storico. E’ come fare un salto indietro nel tempo, grazie agli edifici in pietra e alla presenza di antiche botteghe e attività artigiane, dove potrete vedere diversi artigiani all’opera, intenti a lavorare ceramiche o gioielli, oppure a soffiare il vetro. Faccio un po’ di foto, provo a immortalarli e mi stupisco che ancora ci sia questo amore e rispetto per l’arte e l’artigianato. Mi stupisco di tante cose, da viaggiatore. Penso alla decadenza di molti nostri centri, ai nostri artisti e quanto la nostra creatività sia considerata inutile. Penso alla decadenza del mio paese.
Il freddo e la pioggia cominciano a combattere con me. Ma mi piace l’atmosfera, la sento poetica Trovo un ristorante vicino che sta in un piano sotterraneo di un altro passaggio tra le mura, si chiama Munga Helder. Non so se sia la marca di qualche preservativo o altro oggetto sessuale ma lo trovo interessante. Il menù ha almeno un piatto che mi piace della lunghissima e tipica descrizione presente. Penso debbano istituire prima o poi un corso “leggere i menù all’estero” perché ti spiegano tra poco anche chi lo ha cotto.
Al mio arrivo c’è solo la banconiera ad aspettarmi, una stangona di almeno due metri – forse di più, ma non mi avvicino per sicurezza – con occhiali e sguardo dittatoriale che forse si chiede che ci faccia da quelle parti e se non abbia sbagliato posto. Chiedo una birra in offerta, una tartare e un’omelette. Ovviamente se pensi all’omelette non puoi dimenticarti che dentro potrai trovarci tutta la cucina estone! E infatti, più che un’omeletta sembra la mia tasca nei viaggi. Tra un piatto e l’altro passano due secoli circa – ma che starà facendo nel mentre? -. e quando le chiedo il caffè finale – un espresso italiano, con un sorriso per dirle “ohhh fammelo bene!” – mi porta il conto, all’interno di un libro che sembrano le tavole di Mosè – ma del caffè nessuna traccia. Chiedo ancora del caffè, mi risponde ok, caffè, ma non lo porta. Capisco che il conto anticipato era un gentile modo per dire “ma quando te ne vai?”. Allora, mi chiedo: che avrò fatto di male? Forse aver attaccato il cellulare alla presa? Forse essere andato in bagno? Forse aver detto still water? Eppure ho dato fiducia a un ristorante dove non c’era nessuno, se non altri due loschi personaggi che si son presentati dopo, e non mi stupirei se fossero i protagonisti di qualche omicidio efferato in zona.
Riprendo il cammino senza una meta precisa, chiedendomi ancora quale peccato abbia fatto alla tipa del Munga Helder. Torno nelle vie conosciute girando ancora per qualche piazza interessante, come quella della Libertà . In epoca sovietica era conosciuta come Piazza della Vittoria e ospitava le parate per la Rivoluzione d’ottobre. Ora è dedicata a concerti con uno strano e curioso giro di luce pseudopsichedelica nei pali, di ispirazione sovietica, che va a tempo con le campane. C’è anche la grande Croce della libertà, un monumento alla Guerra d’indipendenze estone nel 1918. Di notte, illuminata, ha un aspetto davvero suggestivo.
Manca poco al tramonto, orario 15:30 dal mio iphone, allora un’ultima camminata prima che tutto sia notte anticipata. Cerco poi un caffè con vista sulla città, trovo il Vanalinna Rahva Raamat, che ha dentro una libreria. C’è chi studia, chi scrive e chi chiacchiera. Chiedo alla cassa una cioccolata calda, la signora di rosso vestita mi rispondono con la richiesta del green pass. Che qui non si chiama green quindi quando capisco la parola covid gliela mostro.
Mi siedo fronte strada in comode poltrone, mentre la luce del giorno va via, le auto corrono e si fermano al semaforo e una pioggia fitta inonda le strade. Un caffè anzi una cioccolata in una città sconosciuta, in una sera qualsiasi. Non conosco nessuno, non capisco la lingua. Non è forse questo il senso di un viaggio? Dopo due ore di stazionamento spensierato, tra litigate social, libri e appunti, mentre vedo cambiare i volti dei clienti ai tavoli vicini, scendo al bagno che si trova al piano di sotto. Curiosamente le porte sono indistinte per maschi e femmine. Quando vado via la città è oramai ha un altro scenario. Ho bisogno di caldo e trovo il centro commerciale. Zara, H&M, Adidas, Nike, Intimissimi. Mi chiedo perché ci caschi sempre. La mia permanenza dura il tempo di ritrovare un accettabile calore corporeo e della solita domanda “posso aiutarla?”della commessa di negozio, in questo caso Tommy..
Il centro di Tallin è ora una galassia di luminarie e alberelli a bordo strada, negozi che hanno addobbato le vetrine con cura e poca gente in giro. Tutto fottutamente bello e curato, che ti senti fuoriposto., Torno al mercatino di Natale che alle 18 sta per chiudere. Riesco a recuperare un tazza di vin brûlé che qui penso abbia una temperatura tale da non sfreddarsi nemmeno se lo si porta sull’Antartide. Alle 18:00 stanno chiudendo e pur volendo fare il bis, la tipa mi dice “ci vediamo domattina”. Cosa che avrei fatto subito un post su Fb, ma qui gli orari sono precisi e anche se ti presenti con una banconota da 500 euro non gliene frega nulla. E si gioca d’anticipo. Non è un caso che quando mi presento al ristorante alle otto e mezzo – con gli interni ambientati nel medioevo, sedie di qualche tonnellata e menù pubblicati all’epoca di Re Artu’ – anziché complimentarsi della mia scelta – hai sfidato la pioggia e il freddo e aiuti l’economia estone, benvenuto! – mi avvertano della chiusura tra 20 minuti quindi “sbrigati, eh”. Sempre una bellissima ragazza, ma con gli occhi da belva. Mangio con l’ansia di dover finire e ordinare. Mi sento assillato dalla cameriera che appena nota un gesto di rassegnazione o una pausa interviene sui piatti e li porta via. Prendo un pollo che sembra un caffellatte, visto che i porcini poi sono avvolti da una crema lattiginosa, insieme a un cesto di patate sabbiose. La birra al solito è sontuosa, ma qui è una costante. Scende alla grande. Sarà il piacere del viaggio? Per dolce tortino alle mele glassate con vaniglia. Ma la tipa diventa ansiosa quindi la vaniglia non la finisco. E col caffè arriva pure il messaggio subliminale: te ne devi andare. Rientro in albergo rinfrancato. Vorrei prendere sonno ma la coppia della stanza 202 fa scricchiolare le pareti di legno del vecchio St Olav Hotel con un dinamismo e palleggio da semifinale di Champions league tra squadre inglesi. Dopo circa 13 minuti di ostilità, lei annuncia di esser soddisfatto con un lungo gemito. Lui si mette a tossire poi va a vomitare in bagno. Vorrei aprire la porta e dirgli: signori, domani devo partire, potete scopare in silenzio? Poi dicono che siamo solo noi i maleducati….

Una sera a Tallin

Lascio Roma a metà pomeriggio. Il caos della stazione Termini, il pullman per Ciampino e ancora a chiedermi quale santo difenda i miei bagagli quando salgo a bordo.
L’autobus Terravision – sei euro solo andata – ha un compito arduo: in quaranta minuti vincere il caos capitolino e portarmi nell’aeroporto povero di Roma quelle delle low cost. Sgomita e sbuffa, suona il clacson e cerca spazi come un Sebino Nela d’annata. Alla fine vince. I tempi son rispettati, quaranta giri d’orologio spaccati.
Ciampino è un bilocale. Controllo biglietto già all’ingresso e primo serpentone da superare con una tipa che sbuffa quando le chiedo se debba mostrarle anche il greenpass. Ma non lo vede questo qui che è già troppo se sto seduta all’aeroporto invece che farmi un aperitivo? Alla fine del labirinto si può scegliere tra direzione check in e diretto ai controlli. Forte del mio zaino da spalla – grazie Edoardo Piras – posso passare alle semifinali: stavolta c’è una fila davvero. Ci son due nastri a disposizione, pochi per l’afflusso di oggi. Ricordate di togliere tablet, computer, liquidi e oggetti metallici. Una ragazza ogni venti secondi riprende la litania come se leggesse il salmo a messa, ci manca sola ora pro nobis. Se consideriamo un turno di 6 ore quante volte l’ha detto?
Il tipo dietro i metal detector davanti fa il vigile con due mani che fanno palette: passa tu, poi passa tu. Col solito modo tutto italiano di trattar male la gente. Poi penso: ora stacchiamo da tutto questo. Manca poco. L’attesa è breve, nella zona A dell’imbarco per Tallin non c’è bar e il distributore non funziona. Problemi tecnici, leggo, formula valida per ogni motivo. Volevo prendermi una bottiglia d’acqua, sconto la solita fregatura di aspettare all’ultimo. Guardo triste il bric di acqua Fiuggi che mi aspetta.
Il volo dura 3 ore che passo scrivendo, leggendomi un libro di Paul Auster e ascoltando musica. Va in scena la vendjta di tuttto, biglietti, panini, snack, profumi. Vicino a me una ragazza bionda robusta controlla i miei movimenti con fulminei sguardi di condanna mentre guarda un film con un iphone di prima generazione tenendolo per due ore davanti. Non capisco bene cosa sia anche perché quando ci provo mi rifulmina.
L’atterraggio è morbido, per una volta il comandante non frusta i cavalli imbizzarriti e sballotta noi viaggiatori che abbiamo però il sedere oramai asfaltato e i gomiti ristretti. Squillo di tromba – che sa sempre di inchiappettata riuscita – e scritta gigante bianca Tallin nel piccolo aeroporto, tra pareti brandizzate da marche semisconosciute, salette curate con interni di design e parquet ovunque. La temperatura è scesa, ci sono chiazze di neve. Cammino per uscire dalla zona imbarchi incrociando spazi ordinati, bar con caffè italiano, distributori di acqua e bibite e pochi altri rumori. Ciampino è un ricordo. Niente più caos e nemmeno controlli particolari. Uscito dalla zona protetta – mi sarei aspettato almeno una perquisizione – un bimbo con giubbotto da sci e cappuccio bianco con il padre e la sorellina aspettano la mamma con un mazzo di fiori. Escono dalla porta girevole per incrociarla sul marciapiede e quando lei si gira le fano a sorpresa. Mi commuovo per quella scena da film. Un uomo con un berretto a quadri, rughe nel volto e profumo di tabacco guarda gli orari degli arrivi. Chi starà aspettando? La moglie? La figlia? Il figlio?
Davanti allo scalo passa il tram 4, quello che ti porta in centro, oltre alla linea 2 che arriva più tardi. Vicino c’è una sala d’attesa dove stazionano due uomini che penso restino là a guardare tutti i tram che passano fini al giorno dopo. Uno schermo gigante con le info sulle linee, una biglietteria automatica, parole chiare e semplici.
Il mio tram è direzione Tondi, passa tra 8 minuti. Siamo in pochi a bordo, una donna di una sessantina d’anni con una busta piena di medicine veste un giubbotto rosso e panta neri, due ragazze di Napoli, le uniche di cui si sente parola, e un’altra coppia seduta con lui di fronte a lei che si sorridono silenziosi.
Mezz’ora di buio attorno e sono in centro di una città ordinata, geometrica, il freddo che schiaffeggia la pelle, quella voglia di coccole e riscaldamento sparato al massimo e la sensazione che tutto abbia una dimensione ancora umana. In ogni angolo alberi di natale illuminati, vetrine addobbate con grazia, poche persone in giro, tutte munite di cappuccio e guanti. Finestre accese e vita domestica da scoprire.
Sono a Viru, davanti a Tammsaare Park. Le auto scorrono lente in grandi viali anch’essi illuminati. Nuovi palazzi si alternano a vecchie costruzioni tirate a lucido e altre dal sapore sovietico. Un piccolo chiosco solitario aspetta clienti che non arriveranno più. Una fermata dove incontrare fantasmi e pensare alle loro vite. Una grande croce illuminata davanti alla chiesa che rintocca le nove con una doppia tonalità.
Io amo le città nordeuropee d’inverno! Oltre alla magia mi fanno venir voglia di mangiare.
Il centro storico (illuminato per Natale) é uno scrigno dorato, richiama i tempi del Medioevo, di cui la capitale dell’Estonia mantiene quasi inalterate le tracce nelle sue strade, case e chiese. Si estende ai piedi della collina di Toompea ed é stato dichiarato Patrimonio Mondiale Unesco.Cuore pulsante della cittá vecchia é la Piazza del Municipio, dove tra le altre cose si trova una delle farmacie piú antiche d’Europa.
Ci metto pochi attimi a capire l’anima di una città. Mi è bastato camminare per sentirmi bene. Senza sapere nulla di tutto il resto, affascinato da cose semplici, una vecchia birreria, un bimbo che gioca con la neve, due donne anziane che parlano rientrando a casa, un market aperto e un chiosco che sforna panini.
Arriva una notifica al mio cellulare: APPROVATO IL SUPERGREEN PASS. Spengo qualsiasi flusso di notizie. Non voglio saperne più nulla.
Una scritta sul muro ricorda di non buttate il tempo o il tempo ti butterà. Non credo sia un caso averla incontrata.

Una partenza per Roma

Sveglia alle 7, ansia di volo. Il taxi notifica che è in arrivo. Ma come, non è presto? Poi mi spiegherà che è normale che l’avviso parta.
Sono a casa di mamma. Le sere prima della partenza amo starle vicino e sacrificarmi in quel letto a mezza piazza della mia infanzia versione moderna di quello che fu di Padre Pio, come dice una mia amica. Te ne compro uno nuovo, lei tenta di riportarmi a domicilio con promesse roboanti. Ma’ ho 167 anni, ma ti pare che debba tornare a dormire qui?! E vabbè. Ma quindi parti, ma dove parti? A Roma. Fa freddo, vuoi le calze di lana? E attento a questo covid. Per lei qualsiasi luogo oltre Sanluri è freddo e impervio. Appena le dico Helsinki – secondo me non ha chiaro dove sia ma farà ricerche su google – mi chiede come sempre che ci fai così lontano? Domanda classica di mio padre. Eredità. Ma domani qui c’è la riunione del condominio. Mamma, andrò all prossima, fatemi sapere cosa si è deciso.
Mentre preparo il bagaglio sono alla terza sudata. Fottuta ansia. Tosse da asma. Ho preparato tutto, viaggio solo con uno zaino. Si chiama backpack, pare sia la svolta del viaggiatore ossessivo compulsivo, sempre alla ricerca di soluzioni ottimali – oddio il linguaggio da imbruttito milanese – non è quello del mio Cammino di Santiago ma mi evita il trolley e lo zaino. Una combo che non sopporto più.
Mi metto tutto sulle spalle. Scelgo accuratamente cosa portare per evitare pesi inutili. Provo e riprovo, chiude!

Il taxi è puntualissimo, un minivan da 8 posti. Chiacchiero con l’autista. Sorrido per il tanto spazio a disposizione, quale onore? Mi sento un dj superstar che va al suo concerto a Miami, mi ricordo poi che sono un povero cristo che rompe la noia locale a suon di viaggi per lavoro e per piacere e deve arrivare solo all’aeroporto di Elmas.

All’aeroporto c’è poca gente. Vuole l’aranciata e il menù? No solo acqua, cornetto e cappuccino. Sono cinque euro. Non so se dentro abbiano messo anche il sacro graal. Un tipo si avvicina al banco e chiede una tisana allo zenzero. Nulla, rispondono. E ridono discutendo dello zenzero e della sua richiesta in aumento.
Volotea, prime tensioni all’imbarco. Quelli senza priorità capitano sempre nella fila priorità e se ne accorgono dopo con scenate da mancato rigore allo stadio Olimpico. Quello che elegantissimi e professionali saltano la fila con volto spensierato con il cellulare sempre in chiamata per affari. Strano, gli imbarchi hanno due file, due soluzioni. A o B. Con o senza priorità. Anche perché se non paghi non hai priorità. Difficile sbagliare.
Ancora polemiche nell’aria. Prima non era così. Prima i treni arrivavano in orario. Prima Alitalia. Prima Dc, Pci e Psi. Effettivamente nel volo Cagliari/Roma la truppa passeggeri è più burocratica di quello milanese dove tra manager, ceo di se stessi, stilisti, influencer da shopping milanese e bocconiani sbarbati la parola d’ordine è silenzio ed efficienza.
Le frasi si sprecano nell’aria mentre Ryanair annuncia che l’ultimo imbarco per dovenonricordo. Il pubblico nonpriority potrebbe scatenarsi in un “onestahhh” da un momento all’altro perché quei priority non rispettano la democrazia.
Le polemiche continuano a bordo. Un giovane steward, appena termina una dettagliata spiegazione a passeggeri con un bambino – lodd a lui per tanta professionalità – viene impallinato da passeggeri di mezza età che sfogano rabbie mattutine e giocano sulla sua cortesia e adolescenzialità. Nessuno mi ha mai detto che devo lasciare il trolley qui, ma come mai ho pagato venti euro per i bagagli e ora ne devo mettere uno di 45 kg al check in.
Lui si prodiga per rispondere a tutti, respira e argomenta con parole legggere, ma le vedove di Alitalia siano tante.
Vorrei dirgli sei stato bravo e mettere una recensione. Dirgli che non tutti i viaggiatori sono così, che ce ne son altri che capiscono e passano avanti. Che non è colpa tua, mia, di Alitalia o Volotea. Basta che sorridi e mi tratti bene e saremo felici.

Il mio battesimo del volo con Volotea è iniziato: per ora professionalità e gentilezza, cambi volo su web – e niente telefonate di due giorni al call center e orecchie bollenti – nonostante certi passeggeri a bordo se la prendano con lavoranti a bordo, trattandoli da schiavi di qualche galeone di inizio ottocento. Prima o poi uscirà qualcuno che chiederà di lustrargli le scarpe e fargli le unghie.
Saluto un caro amico che si immerge nella lettura. La mia vicina di fila ha gli occhiali con montatura sottile, gilet e camicia con fiori viola e rossi. Si presenta con un mi scusi deciso e monotonale, ora mi sento in colpa per essere al mio posto e perché non ho capito da lontano che quel posto finestrino fosse il suo. Mi sento in colpa di esistere, signora! Altro tono del ragazzo col capello lungo che occuperà il posto al centro che chiede la cortesia per accedere alla fila.
Ci vuol pazienza, sempre. Soprattutto se si è viaggiatori e se si parte di mattina verso Roma.

Un giorno a Siviglia

Un giorno a Siviglia. Dal Portogallo alla Spagna cambia tutto e siamo a un’ora di auto. Lingua, sensazioni, anima.
Siviglia è sempre bellissima! Mi stupisco ogni volta che ci passo.
Una frase di Antonio Gala recita che recita :” Il male non è che i sivigliani pensano che hanno la città più bella del mondo… il peggio è che può essere che hanno ragione”. La capitale andalusa ha veramente un “colore” speciale.
Certo ci sono città nel mondo anche più belle, ma quel che rende preziosa Siviglia è sicuramente il sole, il caldo e la gente.
E mi son bastate poche ore per riannodare ricordi. Sembra sia sempre il momento di una “Cervecita”, i bar sono frequentatissimi sempre, c’è rumore, movimento, dinamismo.
Il centro storico è enorme. C’è la cattedrale gotica più grande del mondo che non capisci mai da dove fotografare, di fianco c’è la Giralda (simbolo della città) e l’Alcazar reale (una fortezza araba costruita durante la dominazione araba in città), poco più in la c’è l’Archivio delle Indie, altro punto di interesse in città.
E poi i profumi: d’azahar (il profumo dei fiori di arancio) oppure d’incenso.

Le luci della sera, la campana della metro che passa tra vie piene di gente, il primo fresco che fa l’occhiolino con educazione all’inverno, i monumenti che si stagliano davanti, i camerieri che preparano le tapas in bar affollati fino a tardi, il rumore di un flamenco che si perde nell’aria.
Sono qui, in una città bellissima e vedo uno spoiler di Natale con il fumo che sale dai venditori di castagne e i mercatini già aperti. Sono qui, perduto e ritrovati, a chiedermi sempre perché debba partire ma poi voler tornare a casa. Per aver una scusa per ripartire domani.
“Ogni viaggio lo vivi tre volte: quando lo sogni, quando lo vivi e quando lo ricordi”

Ma ora son stanco, un pochino di siesta e poi si riparte!

Un giorno a Lagos, in Portogallo

Un giorno a Lagos, Portogallo è già finito.

Controllo che mezzi ci sono da Lagos a Faro: il pullman Alsa parte troppo presto, ma per fortuna posso anche scegliere il treno – non è mai scontato che ci sia la ferrovia in certe zone di Spagna o Portogallo – e anche l’orario è perfetto: le 11:14!
Riesco a fare ancora un ultimo giro veloce a Lagos puntando sulla costa davanti davanti alla città vecchia. Scopro – mia pigrizia nel non studiarmi mai tropppo le destinazioni e andare a caso per non dire altro – che ci sono quattro splendide spiagge Meia Praia, Praia Dona Ana, Praia do Camilo e da Batata. Sono tutte circondate da scogliere e anfratti le rendono ancora più belle e si trovano all’estuario di Lagos. Scendo attraverso una ripida scalinata e lascio la borsa a distanza, controllandola ogni tanto. Ma mi faccio la domanda: chi mai me la vuol prendere? Cioè ho oramai la sensazione di essere sempre a casa e che ci sia un patto tacito tra viaggiatori e luoghi: ci si rispetta a vicenda. Questo è adolescentesco, lo so, inconcepibile nei tempi dell’odio social e del “ti fotto io prima che mi fotta tu” ma è così.

Il clima è splendido, ci sono diciotto gradi, mollo il giubbotto in borsa e resto in maglietta. Più di una persona sta facendo il bagno o prendendo il sole.
Continuo a controllare la data: siamo al 10 novembre (che data!) e qui si gira ancora in pantaloncini e maglietta. Tornando nel centro di Lagos mi accorgo che tutti son vestiti estivi.

Mi scuso se vi ho raccontato poco di Lagos: avete ragione! Una cittadina squisitamente portoghese, strade acciotolate, ristorantini, case basse e bianche e un’atmosfera rilassante che culmina con una zona più silenziosa e riservata, quasi in segno di rispetto, vicino alla chiesa di Sant’Antonio dove ieri notte passeggiavo curiosando dentro le case. C’è un giusto connubio tra negozi occidentali, gli immancabili tezenis, ale hop, eccetera i locali notturni – tanti – e i semplici ristorantini locali,.

Il fronte del porto prosegue con altri bar e ristoranti, insieme ai gazebo dei tour in partenza: ce ne son davvero tanti! Uno scrive WE ARE LOCAL forse per attirare l’attenzione su un dna di Lagos.
A Lagos c’è un estuario che si snoda per l’intera lunghezza della città dividendola in qualche modo con un ponte automatico sotto cui partono barche più o meno grandi verso l’oceano. Poi, le spiagge. Tante e bellissime. E il mercato comunale, dove ascoltare – e non capire – le urla e le contrattazioni sui banchi o vedere arrivare un grande pesce spada.

Cammino per mezz’ora prima di arrivare alla piccola stazione dei treni. Due binari, di cui uno è un vecchio mezzo diesel diretto proprio a Faro, come sulla scritta. Faccio il biglietto e ho tempo per una colazione fuoriorario al vicino bar, guardando l’orologio: al banco c’è un ragazzo che ci mette un’eternità a sfornarne un cappuccino tanto curato, con aggiunte di latte e cacao e sapienti dosaggi – lo guardo con la coda dell’occhio – quanto bollente. Anzi di più. Prendo anche un croissant soffice, senza nulla dentro. Mollica. La sua collega parla un inglese scolastico e perfetto. Anche se il binario è a un minuto di camminata non riesco a finire tutto. Il cappuccino, che poi sa di caffellatte, è davvero caldo!

Il doppio vagone parte in perfetto orario, sedili puliti e dentro tanto silenzio. Per diversi minuti restiamo gomito a gomito con l’oceano, spiagge lunghe e bianchissime. Poi ci lasciamo, come due amanti che si promettono amore eterno. La campagna. Case basse, bianche, campi coltivati e stazioncine. Studenti e pochi viaggiatori come me. Il trenino sbuffa ancora per un po’, suona la sirena e continua il suo onesto lavoro.
Inizio a guardare i messaggi di auguri. Sono tantissimi e già vorrei scrivere GRAZIE in una grande mongolfiera che passa sulle città. Dicono che col tempo consideri il tuo compleanno come un giorno normale. Viaggiare, vedere, capire. Sentire e innamorarsi. Ecco la mia normalità.

Due ore e arriviamo a Faro, un’altra avventura comincia!

Dall’Andalusia all’Argarve


Prendere un pullman Alsa significa capire quanto sia lo scarto tra i nostri servizi pubblici regionali e il resto del mondo. Mezzi puliti, confortevoli, prenotazione chiara e tanti servizi a bordo. Adoro fare i confronti e cerco sempre di domandarmi perchè sia così complicato fare le cose per bene nel mio paese. Ma è un pensiero passeggero, prima di inerpicarmi in stupide polemiche.
Alsa la conosco bene: mi ha scarrozzato in giro per la Spagna per anni. Mi ha regalato paesi e scorci di questo smisurato e bel paese portandomi da città a città, con viaggi lunghissimi ma mai pesanti

Parto da Siviglia di buon mattino e lascio la città destinazione Huelva. Sotto lo sguardo della Sierra morena, piccole città e sentieri costruiscono uno scenario naturalistico che regala tranquillità. Fosse per me mi fermerei per ogni cittadina, anche in una panchina a osservare la gente, ma la mia direzione è altrove. Il Portogallo, ebbene sì, vi ho svelato il segreto. Giusto per non annoiarmi.

Mentre l’autista guida sicuro verso la prossima città mi godo campagne, filari di viti, angoli di mondo. Leggo i nomi delle città e sembrano tutti rimandare a suoni antichi.
A bordo del bus c’è un religioso silenzio finché non sale e si siede vicino a me una robusta ragazza portoghese, vestita con panta aderenti, che inizia ad ascoltare i video su Youtube ad alto volume. Io e un altro passeggero la fissiamo, finché non desiste, abbassa quel vociare digitale e si sposta.

Il viaggio scorre tranquillo. Le fermate alternano anonimi parcheggi limitrofi a centri commerciali a immersioni in paesi che hanno la costante delle case basse e del bianco splendente. Il cielo è azzurro, stacca perfetto col bianco, e finalmente l’oceano è riapparso. Non so perché ma questo paesaggio ma mi strappa un sorriso.

Tre ore di viaggio da est a ovest. Al confine col Portogallo un lunghissimo ponte sul Rio Guardiana introduce un cambio di paesaggio importante e anche di cartelli e scritte.
Uso il bagno, costa un euro, non ha sapone ma è pulito. Per centrare il cesso bisogna fare molta attenzione. Equilibrio possibile.
Ad Ayamonte sale una famiglia di italiani, mi pare piemontesi, con due figli piccoli che siedono proprio davanti a me. Sono gli unici che chiacchierano. Lei mi sembra di origini polacche, lui la sfotte. Mi accompagneranno fino a Portimaio per poi scendere. Ad Albufeira c’è una sosta di dieci minuti, l’autista dichiara candidamente di dover andare in bagno e suggerisce di fare lo stesso. Il tempo si è rallentato: siamo passati a meno uno di fuso orario. Ancora paesini bianchissimi, piccole case e campagne. Il sole e il cielo azzurro sono le certezze, come l’oceano in lontananza.
Nel mentre scrivo, leggo, rispondo alle mail, butto giù un’idea di storia chiedendomi mille perchè, chiudo qualche messaggio e fotografo cose inutili: un ponte, una casa lontana, il mio notes. Un amico mi suggerisce una trolley zaino da comprarmi. Altri paesi scorrono come frammenti di fogli bianchi incollati a un quadro e la domanda che mi faccio spesso è “come sarebbe vivere da queste parti?”.
Faro e poi Lagos, la mia destinazione. Ultima fermata di questo viaggio. Scendo, saluto e ringrazio l’autista. Lo fanno tutti. L’educazione normale mi stupisce. Mi rassicura vedere la borsa, l’ultima, e mi chiedo poi come sia possibile che nessuno ti rubi il bagaglio nonostante le fermate. Mistero irrisolto.
Le stazioni sono pulite e sempre piene di storie possibili e personaggi che sarebbe bello conoscere. Fanno viaggi lunghi, portano tristezza e preoccupazione tra gli occhi. Poi ci sono quelli che ti ispirano un gran senso di libertà, giovani o meno, zaino in spalla e pantaloncini corti per tutto l’anno. I classici viaggiatori nomadi. Facce diverse.
Io, giubbotto marta e felpa, mi sento un po’ stupido in questo angolo a ovest di Europa dove l’estate continua a stiracchiarsi. C’è un canale che porta al mare, i chioschi con i tour in offerta e un mercatino di abiti dove un bimbo si nasconde tra pantaloni e gonne.
Cerco un ristorante, il primo che vedo. Vicino a me una coppia ha appena concluso il pranzo e si alza. Ancora più in là un uomo con la pelle abbronzata, la barba bianca. Ha le fattezze di uomo di mare e gioca con una sigaretta. Il suo sguardo è perso, di fronte a un bicchiere di vino. Entrano anche degli olandesi: chiedono coca zero. Il menù è scritto in portoghese, spagnolo, inglese, tedesco e olandese. Nessun segno dell’italiano: non so perchè ma mi ispira been questa mancanza.
Chiedo un petto pollo e un’onesta insalata. Immancabili sono patate fritte. Da bere un bicchiere di vino tinto e acqua. Poi olive e pane che non sono mai automatici: si pagano a parte. Il cameriere chiede se il pollo lo voglia piti piti o meno, che vuol dire speziato. No, e niente salse, rispondo. Un espresso sul finale mentre nella radio va Robert Miles e Children.
Conosco a memoria la cucina portoghese e ogni volta assaggio e mangio quello che più mi ispira, senza vergogna di tornare nel ristorante italiano o presunto tale di essere pateticamente monotono. Pollo, insalate, carne. Birra o vino.
Tutto va lento, anche il vigile che controlla i parcheggi sembra soprassedere su chi sgarra. Nel centro storico si alternano un negozio di intimo tezenis con unsa gelateria artigiana, aley hop e i suoi oggetti e la bottega dei tessuti che potrebbe emozionare mamme datate e nonne ancora più datate. Vecchio emozionante e banalissimo nuovo senz’anima, nella sua riproposizione continua, vanno a braccetto. Non so perchè ma quando vedo queste catene resto sempre perplesso. E’ come se rubassero la bellezza ancestrale dei posti, come le auto davanti ai monumenti, come il reggaeton a tradimento in spiaggia. Quelle stonature.
Ancora turisti, alcuni americani: portano camicione floreali improponibili da film che raccontano le avventure degli studenti universitari. Tanti anziani, forse anche questa è una destinazione per la terza età. E hanno ragione.
Dall’Andalusia all’Algarve cambiano le sensazioni, la lingua, le bandiere ma la magia resta quella.
Il clima non mi fa credere che a un’ora di volo ci sia un inverno in arrivo e soprattutto ci siano posti dove stress e traffico rovinano la nostra esistenza mentre qui, in questo remoto paesino del Portogallo, tutto ha un’essenza umana.

Una corsa al tramonto a Lagos, in Portogallo

Corro fino a mare attraversando un bel quartiere residenziale. Il sole scende veloce, le ville si colorano di arancio. Tutte eleganti, curate, con i giardini ordinati e le intestazioni nelle mattonelle bianche e azzurre.
Accelero il passo ma quando arrivo in spiaggia il sole è appena andato via.
Mi sento come un fedele che ha tardato al passaggio di sant’efisio. Che poi non mi sono accorto di essere finito in un’altra piccola città a sud-ovest del centro, un posto chiamato Amejeira.

La Praia de Porto Mós, così si chiama la spiaggia, è circondata da alte scogliere, una lunga lingua di sabbia soffice, dorata e bagnata.
Ci sono gli amanti del tramonto, quelli che appaiono tardi. Chi si raccoglie in meditazione, chi corre col cane, chi legge, una cartolina d’estate infinita. Controllo il calendario: è 9 novembre!
Un baretto vicino diffonde musica anni 80. Ha tutta l’aria di essere vicino alla chiusura e i camerieri pregano con lo sguardo che i pochi clienti si affrettino a scolarsi le ultime birre Super Bock insieme alle immancabili olive e patatine.
I colori cambiano e all’imbrunire, quando in spiaggia ci contiamo, si accendino le lampade di barche ancorate davanti. Spettacolo.
Prima mi faccio una foto e stilo un bilancio della giornata.
Ho disconnesso tutto, tranne che l’anima.
Ho pensato che non ci sia nessuna fretta e ansia doverosa e le cose importanti della vita restino poche.
Ho iniziato ad amare l’asincronicità.
Ho afferrato un’estate che stiracchiava per le strade di un paesino sconosciuto ai più.
Ho meditato.
Ho letto e scritto tantissimo.
Ho fatto quasi trecento chilometri.
Ho corso fino all’oceano.

C’è una strana energia quando sei lontano.
Se non fosse stato per una donna a cui ho chiesto l’ora nemmeno me ne sarei accorto. Ho rimesso indietro l’orologio, c’è il fuso orario, e ora parlo dal futuro.

Siviglia… e poi?

Svegliarsi in un’altra città, l’anima ringrazia.
Il volo Cagliari-Sivilla lo faccio vicino a una rumorosa famiglia di paese. Il terrore dei bimbi al decollo, il padre che provava a rassicurarli, le chiacchiere ad altra voce e i movimenti sui sedili. Una ragazzina seduta vicina a me con gli occhi tristi, ripresa al decollo dai genitori per non usare le cuffie e stare attenta alle procedure d’imbarco. Tiene quello sguardo triste per tutte le due ore, chiede di andare in bagno allo steward poi, non si sa perchè, rinuncia.
Fuori è buio, poco da fotografare. Le Airpods 2 mi isolano dal caos e dagli annunci di panini, bevande calde e fredde, lotterie e gratta e vinci. La famiglia vicino a me ulula. Con uno sguardo fulmino i bimbi e il papà che per l’ennesima volta sbattono sul sedile. Faccio la parte del cattivo, come mai accade. La ragazzina vicino mi guarda e quasi si vergogna. Sembra volermi dire, hai visto con chi cavolo devo viaggiare? Almeno tu sei solo.

Arriverò tardi e questo mi mette ansia. Ho sempre paura che non ci sia nessuno in albergo, ma poi penso che sarebbe bello vagare la notte in cerca di alloggio. Ho preso treni notturni e dormito in stazioni ed aeroporti, dov’è il guaio? Solo vincere la pigrizia e la paura.
Prendere un aereo significa risolvere nodi. Parole che non arrivano, progetti a metà, frasi che non ci piacciono. O finire libri che ti accompagnano lenti per settimane in cui trovi la tua vita tra le righe. Come la Simmetria dei desideri, consigliato da Valeria, collega del corso di scrittura Baskerville. Alla fine non ci siamo mai visti ma la sento più vicina di persone che vedo sempre. Quando arriva il momento di definire una persona amica? Me lo chiedo sempre. Quale episodio lo scatena.

22:55 le prime luci di Siviglia dall’aereo. Aspetto che l’allegra brigata scenda. Infilo le cuffie, modalità isolamento e continuo a leggere qualche minuto. Mancano dieci pagine alla fine del libro. Vorrei continuare ma capisco che tenere il kindle sulla pista non è il massimo. L’aereo parcheggia lontano, c’è da fare un po’ di strada a piedi. I voli che arrivano o vanno a Cagliari sembrano sempre nascosti e periferici nelle logiche aeroportuali. Come a dire: siamo gli ultimi.
Bienvenidos a Sevilla. Un giocatore di cui non ricordo il nome con una coppa mi strappa un sorriso. Cominciano i paragoni: quando arrivo a Cagliari pubblicità locali e autocelebrazioni miste. Due palle, ma solo per me che le vedo sempre. Immagino i turisti come si emozionino per quello spoiler di immagini e compra sardo che è buono e sano.
La fermata del bus è a due passi. Ci vogliono 40 minuti per arrivare in Plaza de Armas, e con meno di dieci minuti di cammino sarò all’alloggio.
Cerco dove fare i biglietti, trovo la macchinetta, selezionando la lingua spagnolo per togliere ruggine alla mia mediocre conoscenza. Infilo con fiducia la banconota da 5 euro, arriva il resto ma del biglietto nessuna traccia. Provo e riprovo ma il display si è già aggiornato alla pagina principale. Sconfitto, vado sull’altra macchina e riesco a stampare. Comincio il viaggio a -4 euro e mi prometto di riscrivere alla compagnia di trasporti Tussam e magari, come in passato, aver risposta positiva e poter riferire a tutti come a Siviglia e in giro del mondo il servizio clienti è efficiente. E mi metto per 4 euro? Questione di principio!
Tra venti minuti arriva il bus. La fermata si affolla e il mezzo si riempie all’inverosimile. Prendo il posto comodo dietro l’autista.
INDOSSARE LA MASCHERINA E EVITARE DI PARLARE PER MOTIVI DI SALUTE. Rido e non sono l’unico.

Siviglia è vuota. Rivedo in notturna luoghi e strade che ho già percorso, il canale Alfonso XIII, la Torre dell’Oro, la Plaza de Toros.
Scendo all’ultima fermata, Plaza de Armas, la grande stazione dei bus. Mi accorgo che nel display c’era scritto COMPLETO, SCUSATE. Mi sorprende quella parola cortese scritta in lettere digitali.
Alla stazione ci son persone sedute in attesa delle prime partenze del mattino. Qualcuno dorme, qualche altro legge. Un uomo chiede indicazioni per Cordova.
Bastano dieci minuti per arrivare al bnb Naranjo, in completa solitudine. Una vecchia pensione con un’insegna franchista, i bar con le sedie riordinate, un fast food dove gli addetti stanno facendo le pulizie e servono l’ultimo panino.
Il mio alloggio sta nel Casco Antico, il centro storico, dentro un dedalo di stradine illuminate, pulite e costeggiate da bei palazzi chiari, ravvivati dalla luce giallognola delle lampade, con ingressi con stile arabeggiante. Il rumore dei miei passi rompe il silenzio perfetto della notte andalusa. Nessuna movida, nessun bar che tira tardi.
C’è un ragazzo sui trent’anni ad accogliermi. “La stanza sta al terzo piano, ti ho dato una matrimoniale, l’unica cosa è che non abbiamo ascensore”. Nessun problema. Gli interni sono retrò, quadri terrificanti, sedie polverose, arazzi di dubbio valore, tutto è la rappresentazione degli alberghi che amo, quelli un po’ raffazzonati – solite prese attaccate a vanvera e collegamenti casuali – ma che mi illudono che il tempo non sia passato. Magia a confronto di anonimi hotel di lusso che potresti trovare in qualsiasi città e non ti raccontano niente.
La stanza non è molto spaziosa. C’è pure il bidet, e questo mi strappa un sorriso. Mi chiedo come mai, non ho voglia di approfondire questa curiosa novità.
Vorrei dormire, ho la sveglia alle sette e mezza, ci riesco a tratti: una malefica spia del televisore mi tiene sveglio. Non ho la forza di prendermi la benda per gli occhi, mi rintanano nelle coperte. La spia azzurra continua a infastidirmi. Prima o poi scriverò un trattato sulla mancanza di buio nelle stanze d’albergo.
La mattina anticipo la sveglia. L’ansia di perdere l’autobus mi dà questo effetto ansiogeno. Scendo veloce con il solito anticipo esagerato, la stazione sta a mezz’ora di camminata. Controllo e ricontrollo il biglietto: strano che il bus non parta da Plaza de Armas. Le ricerche su google confermano: parte da Santa Justa. Metto Google maps e calcolo i tempi e come incastrare la colazione, quasi fossi in ritardo. Mi stresso inutilmente pensando di farla non appena mancheranno meno di dieci minuti.
Siviglia si sta risvegliando: fa freddo, si affollano i primi caffè, le luci del sole danno altra dignità ai palazzi del centro storico, un profumo passeggero di shisha, i ragazzi infreddoliti che vanno a scuola e i pullman che cominciano a ingoiare e vomitare gente. Ogni volta il Metropol Parasol mi fa pensare a un grande waffle. Questa bizzarra costruzione di colossali dimensioni, è la più grande in legno al mondo. Inserita nel contesto urbano rompe la narrazione.
La camminata prosegue contando con quanto anticipo arriverò. Rivedo strade e bar che ho già frequentato in passato.
Mancano 8 minuti, dopo aver saltato più bar, decido che questo sarà il mio. Si chiama Siete Villas e il banconiere, con una camicia bianca e pochi capelli sui lati, mi saluta con un raggiante “bon dia” e una frase che penso voglia dire “cosa posso prepararle?”. Io ho già il copione: cappuccino, zumo de naranja e pan y tomate. Passano tre giri d’orologio e la mia colazione sul tavolo. Scrivo qualcosa. In tv le notizie del mattino girano con la possibile riforma delle imposte sui redditi. O così mi sembra. Perchè son capace di prendere granchi colossali quando traduco. Il pane soffice e riscaldato con il pomodoro è una gioia semplice che mi fa ritrovare la mia Spagna. Cerco il bagno per potermi lavare i denti. La mia lotta quotidiana con l’apparecchio è cominciata: lo spazzolino elettrico va a tratti. Mi chiedo se sia colpa della pressione che faccio sui denti o delle batterie scariche. Mi ricorda quando faccio benzina e la pompa si blocca, forse perché va a contatto con il carburante e allora si innesta questa strategia di sicurezza. Pago 4 euro e mi sembra un prezzo assolutamente onesto.
Quando esco dal bar, l’aria si è fatta meno fresca. Allora inizio a connettere che il viaggio è iniziato, leggerezza e sentirsi sempre a casa, ovunque sia. Ma anche un’altra sensazione: di esserci da molto più che poche ore. Vi è mai successo?

Arrivo alla stazione di Santa Justa. Vedo un bus solitario dell’Alsa. Mi chiedo se sia proprio quello il mio. Ricontrollo ancora. Cerco qualche gruppo di discussione sulla fermata. A destra dell’uscita della stazione. Qualche minuto e si materializza l’autista. Accende il motore e apre il bagaglio. Mostro il biglietto, mi risponde “Nicola!”e con l’ennesimo sorriso gratis mi ricorda che sono al posto 18. Mi disorienta trovare persone comunicative, vorrei uscire dal mio spagnolo elementare e cogliere le sfumature delle chiacchierate. Sono rassicurato: è il pullman giusto. Ho preso tante volte l’Alsa girando per la Spagna e mi son innamorato dei pullman. Puliti, efficienti e con costi umani. Anche questo lo è. Per chiudere il capitolo gaffe il pullman, dopo la partenza, torna in Plaza de Armas, a due passi dal bnb, dove fa un’altra fermata. Mi sarei risparmiato mezz’ora di camminata, ma va bene. Non mi sarei goduto Siviglia di mattina. Gaffe, errori, controsensi.
Il viaggio è anche questo. Arrivederci Siviglia. Prossima destinazione…

I viaggi ci fanno star bene

Qualche giorno fa era la giornata del benessere mentale, per ricordarci che la salute non è solo quella del corpo o del conto in banca o il successo a costo di calpestare tutto e tutti.
I viaggi non curano malattie, non fanno miracoli, ma offrono nuove visioni e spunti per vivere meglio, per uscire dalla provincialità e dell’invidia. E poi qualcosa ancora: la comprensione delle differenze, il rispetto e la sensibilità verso il prossimo.