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Reggaeton e museo di Dalì

Accade una cosa curiosa mentre mi allontano dalla casa di Dalì e dal suo mistero della creatività.

Mi attraversa un ritmo incessante che arriva forse da una macchina. Musica reggaeton, ci metto un attimo a capirlo.

Mi fermo ancora al piccolo bar Llevante, sperando di ritrovare un po’ dell’atmosfera della casa di Dalì. Bevo un altro caffè, osservo le persone che passano: figli che seguono i genitori con volti dimessi dall’obbligo di vedere il Museo, turisti con i cellulari, donne che chiacchierano tra loro spalmandosi creme protezione 50. Tutti sembrano immersi nei loro mondi e il contrasto tra l’arte e la musica moderna mi fa riflettere sulla diversità.

Il reggaeton mi suona stridente, come se un granello di sabbia fosse entrato in un delicato meccanismo orologiero, alterandone il ritmo. La voce acidognola del cantante, piuttosto che evocare un’atmosfera festosa, si intromette con l’aura magica e eccentrica della casa di Dalì.

Tornando con la mente al labirinto di stanze e ai quadri surreali, quel suono diventa un fastidioso ronzio, quasi un’irruzione brusca nella serenità.

Mi chiedo se la stessa irritazione che provo in quel momento sia la stessa che Dalì avrebbe sentito, lui che aveva cercato in ogni modo di sfuggire alla banalità e alla monotonia della vita quotidiana attraverso la sua arte.

Come avrebbe reagito? Forse avrebbe sorriso, apprezzando il contrasto? Forse avrebbe urlato dalle finestre della sua dimora “spegnete quella schifezza”? O forse avrebbe dipinto un quadro, unendo i due mondi in un’opera d’arte?

Devio mio percorso lungo una strada laterale, sperando che il suono si attenui. Ma, nonostante la mia avversione momentanea, rifletto sul fatto che, proprio come l’arte di Dalì, anche quella canzone reggaeton è un prodotto della creatività umana, una manifestazione di un’epoca e di una cultura figlia dei nostri tempi. E, proprio come l’arte, anche la musica ha il potere di evocare reazioni viscerali, di piacere o di disappunto.

Forse semplicemente basta allontanarsi, come faccio, per non esserne avvolti senza sentirsi in dovere di giudicare. Camminare per la strada e incontrare la beatitudine di una chiesetta semplice, Ermita di Sant Baldiri, dove unartista sconosciuto espone le sue foto immerse nella nebbia e vicino c’è un piccolo cimitero che guarda il mare.

Forse è sempre e solo questione di movimento.

Da Siviglia in autobus verso Sud, destinazione Tarifa

Da Siviglia in autobus destinazione Tarifa ci vogliono ben tre ore. Dovrei farcela. Poi ci sono i fuori programma. L’aereo da Cagliari tarda mezz’ora. Problemi di autorizzazioni al decollo, spiega il comandante con un forte accento inglese.

Prima di raggiungere la aiuola di sosta qualcuno si alza e viene rimproverato al microfono da una hostess. Stesso rimprovero per un gruppo di turisti che sosta in pista in attesa forse di altri compagni viaggiatori. La grande scritta SEVILLA e un sole secco e deciso mi abbracciano quando arrivo nel sud della Spagna. 

La prima cosa quando arrivo in un altro paese è allontanarmi dai connazionali: sì, capisco che forse per alcuni sembrerà strano, ma non voglio più sentire una parola di italiano e abbandonarmi al luogo.

Il tempo è poco, ho il bus alle 14 in punto, meno di un’ora per andare in stazione, una follia se dovessi utilizzare il bus che collega l’aerostazione con il centro città. Manovro con il cellulare: la scelta è tra Cabify, che non ha mai usato, e Uber. Che bellissima invenzione è Uber e per fortuna in Spagna ancora resiste. Venti euro per la stazione Plaza Das Armas. Il budget va subito a farsi benedire, ma non ho altre scelte. Perderei il biglietto del bus e non so.

Il mio autista si chiama Pedro Jesus e arriva con una corolla nera. Lo seguo impaziente dall’applicazione. Le indicazioni dicono di andare a sinistra, e trovare il parcheggio. In realtà lui mi aspetta al parcheggio davanti. Per fortuna scrive. Lo ritrovo nella selva di auto che aspettano altri clienti. Forse Uber non può avvicinarsi per un qualche patto con i tassisti. Controllo le targhe, eccola!

“Nìcola!”, mi grida qualcuno. Sbuca da lontano l’autista con un sorriso e mi aiuta subito per lo zaino. Viaggio leggero, senza impedimenti, da un po’ di tempo. Lo zaino è l’essenziale e viaggio dopo viaggio ti misuri sulla ricerca del minor peso. Ad ogni viaggio posso ancora togliere qualcosa!

Siviglia è come me la ricordo. Bianca, sontuosa, soleggiata. La macchina costeggia il Casco Antigo, mancano dieci minuti alla stazione e per puro scrupolo riguardo il biglietto del bus. Sai quelle volte che vuoi essere sicurissimo di non sbagliare? E infatti, ecco l’errore: non parto da Plaza das Armas, la stazione grande, il terminal di città, ma da Prado San Sebastian! E dov’è?  Quasi mi vergogno di dirlo al tassista, ma poi trovo coraggio per dire che ho sbagliato, in un mezzo italiano, spagnolo e inglese figlio della fretta e della paura. Lui mi capisce e non so che accada in questi momenti, specie con Uber e con una prenotazione. 

Siviglia ha una tradizione di stazioni sbagliate con me molto interessante: tre anni fa per poco non perdevo il treno sbagliando la stazione. Là il tassista fece davvero miracoli violando almeno una decina di articoli del codice della strada e facendomi salire sul treno cinque minuti prima. O forse il tempo si fermò per me! 

Pedro Jesus mi chiede di ricambiare la prenotazione dall’applicazione, spenderò 2 euro in più. La stazione sembrava più vicina ma è quasi sul fiume Stura. Seguo il percorso sul cellulare, ansioso: arriverò otto minuti prima della partenza. Ne mancano diciotto, ma non si sa come a un certo punto Google Map si aggiorna e diventano cinque. Sospiro di sollievo. Tutto quadra! Un colpo fortunato.  

La stazione di San Sebastian, incastrata in un labirinto di strade, è piccola. Partono e arrivano i bus da tutte le province dell’Andalusia – Cadice, Cordoba, Jaen, Almeria, Malaga e Granada – e dalle principali cittá spagnole. Che bellissima invenzione è Uber e per fortuna in Spagna ancora resiste.Stazione di Prado San Sebastian, Siviglia

I bus in Spagna collegano tutta la penisola con un servizio davvero efficiente, nulla a che vedere con le sgangherate mobilità di casa nostra. Vengono puliti anche durante i tragitti, hanno connessione wifi – non sempre efficiente, dico il vero! – e son comodissimi. I tempi non son di certo quelli del treno, che comunque non vi fa arrivare ovunque in Spagna, ci sono ampie zone dove di rotaie non c’è nemmeno l’ombra, ma c’è la bellezza di una ulteriore lentezza, di vedere i paesi con un occhio più spensierato e senza spendere troppo. Mezza Spagna l’ho girata così!
Chiedo a un autista della compagnia Omes vicino al bus con la scritta Algeciras se passi anche per Tarifa. Mi dice che non è il suo mezzo e poi aggiunge “unos nueve!” indicandomi poi la piattaforma 19. Il bus non c’è ancora. Ho tempo per comprare una scorta d’acqua per riempire la borraccia e andare in una toilette dal sapore franchista. 

La stazione ha colori gialli e bianco, una serie di panchine al centro e una ventina di piazzuole di sosta. Alla partenza c’è una famiglia araba, una coppa di tedeschi, e ancora un signore che legge un giornale da cui non si stacca per buona parte del tragitto e altre donne che viaggiano da sole (una di queste scoprirò essere pure sarda!). Altri arrivano un attimo prima della partenza, ottima tempistica! Io non ce la farei!

L’autista controlla la mia prenotazione online, mi guarda e mi dà l’ok per salire. Prima di partire e salire urla in stazione “Algeciras” come ultima chiamata. Una signora si avvicina e cantilena che prenderà il prossimo. L’autista le risponde di fare come vuole e la salute prima di chiudere la portina con lo sbuffo.

Usciti dalla città affrontiamo chilometri e chilometri di campi e terre seminate. Ci sono campi di girasole, canna da zucchero, fichi e file di alberi lontani. Amo i tempi lunghi dei viaggi, mi fanno fare ordine nella testa. Mi chiedo sempre se debba lavorare, scrivere o semplicemente godermi il paesaggio attorno. Nel volo aereo ho rimesso ordine agli impegni di questo periodo, ho pensato, ho finito un libro da leggere, ho dato senso ad alcune cose che non si smuovevano. E anche ora che sono in pullman, amo quella leggerezza che mi permette di stare così, solo con i miei pensieri, senza nessuna altra distrazione. Non devo far altro che aspettare l’arrivo. Saranno ben tre ore, c’è una persona che guida per me, un mezzo che dolcemente scivola su una strada, nessuno che mi aspetti e nessun appuntamento in vista con lo stress del dovermi spostare in auto. 

Ripenso alle uscite ogni giorno, al traffico che da quando ho vissuto a Milano odio sempre di più – quello di Cagliari è roba da dilettanti, ammettiamolo – allo stress di dover conquistare un posto, di dover stare attenti agli inganni della circolazione, alla corsa senza fine degli altri. La macchina è uno dei fattori di maggior stress, insieme ai social e a whatsapp!

Da tanti anni ho provato a mettere una marcia più bassa. Sono consapevole che non sia possibile più correre. Mi godo il viaggio come impegno di lentezza e consapevolezza, come esercizio di gioia.  In cuffia arriva un giro di note finale dei Gotan project con Diferente, mi prende un momento di emozione verso il terzo minuto tanto che mi scendono due lacrime. Quel remix di malinconia, nostalgia, tristezza felicità si insinua nella pelle. Saudade, che ti prende e ti sorprende quando meno te lo aspetti. Camminando in un lungomare, in un tramonto o in un viaggio, magari anche semplicemente sotto casa. E allora ripensi al tempo che passa criminale, ai ricordi che svaniscono, a dove sei, la bellezza diventa un tutt’uno che ti obbliga a spendere bene il tempo, a non perdere un attimo della vita.

In autobus c’è una lieve musica arabeggiante. Il paesaggio non cambia, scivoliamo leggeri verso Sud. Ogni tanto si vede il mare e piccoli paesini. La prima sosta è Puerto Real, la stazione è una fermata davanti a un baretto di nome Nakalera. C’è uno spazzino con un gilet giallo che taglia una tortilla di patate con una birra in lattina rossa e tre uomini che si contendono una partita a carte con una bottiglia, serviti da una donna con pantaloni cachi. Non ho capito bene se qualcuno scenda o salga, riprendiamo la strada e siamo due passi da una grossa laguna e in fondo industrie e gru mostruose. E’ Cadice, non posso dimenticare mai il suo profilo. Eppure dietro quella civiltà industriale e allarmante, quasi fosse una novella Indastria che fuoriesce dalla laguna, si nasconde una città fantastica.
Cambio la playlist e punto sul NeoTango dove c’è un pezzo di un Bajofondo. Gli associo ai Gotan Project ma sono una formazione musicale di musicisti argentini e uruguagi. Si definiscono “collettivo di compositori, cantanti ed artisti”. Anche loro fanno questo delizioso elettrotango con quella carezza malinconica. Una loro canzone, Pa’ Bailar, diventa la colonna sonora per decine di chilometri. Hai presente quando un pezzo ti entra nella testa? Spensierata e divertente, un po’ scanzonata con questo lead strano che penetra le orecchie. 

Presa la A48 ci dirigiamo verso Chiclana de la Frontera, allontanandoci di nuovo dallo specchio d’acqua. A San Fernando la poesia viene annientata tra centri commerciali e stabilimenti, distributori e supermercati troppo grandi, cartelloni pubblicitari e concessionarie d’auto. Prendiamo direzione per Algesiras e Malaga, per tornare a costeggiare l’oceano che tra poco sarà Mar Mediterraneo.Paesi della Spagna

A Chiclana de la frontera scendono una decina di persone. Non so perché ma le conto. C’è una donna con un abito nero che ha un grosso fagotto e si fa aiutare da un giovane e un ragazzo che sale, mostra una tessera, ma viene rifiutato dall’autista. Così va via senza nessuna discussione. Vicino alla fermata, c’è un parchetto con bimbi troppo grandi che si arrapicano in scivoli e altalene, una donna che tiene un quaderno e studia con la figlia che ripete qualcosa guardando in alto, come a chiedere al cielo i suggerimenti. Ridono, insieme. Forse starà recitando una poesia? Un’altra donna ha un carrello della spesa che sembra un trolley gigante che spinge con estrema lentezza fermandosi ad asciugare il volto. Attorno è un insieme di piccole palazzine che compongono un quartiere popolare fatto di spazi ampi e zone dove incontrarsi e passare le serate. La tipica architettura urbanistica delle città spagnole che vuol dare occasioni di socializzazione alle persone.

Usciamo dal paesino e il paesaggio è sempre più arso dal sole come la destinazione diventa Sud. Se non sapessi di essere in Spagna potrei dire il Campidano in Sardegna, stessi colori, stesse visioni. Inizio a litigare con il cellulare che è appeso alla presa USB sopra il sedile. Cade più volte ma per fortuna non si fa nulla. La mente brucia di pensieri disordinati più dei geometrici campi, ognuno con le sue casette bianche, le finestre azzurre, capaci di resistere al sole di qualsiasi stagione. La scritta Burger King mi riporta al mondo moderno, nonostante un baretto dimenticato da Dio con una scritta azzurra su sfondo bianco La Vega e la sua offerta: si vedono miele, panini, spremute e colazioni. Non capisco l’associazione dei prodotti ma son certo che quel cliente solitario con un capello nero abbia trovato la sua birra giusta.

Tutto è poesia finché non ti imbatti nelle zone industriali fuori dai paesi, fatti di capannoni e di fabbriche, di costruzioni finite o a metà, residence perfetti che aspettano frotte di rumorosi turisti con annessi campi di Padel. Allora le forme bianche delle belle casette di campagna o che si affacciano sul mare diventano corpi senz’anima. Certo, l’economia, il lavoro, la modernità. Tutto questo fa parte del mondo che viviamo. Ma la poesia è altra cosa.

  “Conil, Conil!” urla l’autista, “dieci minuti per andare al bar o in bagno”. Scendono in tanti, non so se per andare via o rilassarsi. Due ore e mezzo di viaggio non son poche! La stazione di Conil è un grande capannone con quattro posti pullman, un baretto e quattro panchine. Un ragazzo sta aspettando qualcuno. Controlla e ricontrolla il cellulare e si guarda attorno: è  una ragazza. Quando si vedono l’abbraccio è infinito, dura troppo per essere un semplice ritorno. Due ragazze si raccontano segreti e storie con ampie nuvole di fumo davanti, inginocchiate in un blocco di marmo e un pacco di patatine da sgranocchiare. Due donne, non più giovanissime, sgranchiscono le gambe con movimenti circolatori coordinati. 

Quando ripartiamo ritroviamo ancora una distesa di campi stavolta animata dal moto circolatori delle pale eoliche. Perdo il conto di quante ce ne siano e quando la strada si fa una lingua d’asfalto lunghissima, lo spettacolo di questi marchingegni meccanici diventa  allarmante. Un gruppo di mucche prendono il sole chiedendosi il motivo per cui l’uomo violenti così il paesaggio. Anche qui è la civiltà che chiama e guai a discutere su questi modelli di sviluppo, potresti essere additato di arretratezza e anticonformismo radicalchic.

Finalmente mare, una lingua di sabbia infinita e tanti kite surf. Ci avviciniamo a Tarifa. Un’auto fa un sorpasso al limite del codice (penale) tanto che l’autista urla un violento “coglione!”. Qualche minuto in più e in meno e sarebbe stato uno scontro frontale, e non credo con conseguenze leggere. Ci pensate a quanto la vita sia un insieme di centimetri e di minuti? Spesso per pochissimo tutto può cambiare. Si chiamano coincidenze, sono quelle del destino. Essere nel posto giusto, al momento giusto. E magari vederne concretizzate altre: un incontro casuale figlio di un ritardo, una persona conosciuta incrociata in una metropoli, un volo perso che ti salva la vita. Oppure soccombere per quel caso del destino. 

La sfilata di colorati negozi per surfisti con scritte e bandiere diverse, prima ancora di uno sguardo all’orologio, mi dice che siamo arrivati. Finalmente! Tarifa, la stazione è un box, troppo piccolo per essere vero. Il sole colpisce ancora ma un vento fresco schiaffeggia la faccia. I ricordi affiorano, quanto tempo fa son passato? Avevo scritto un altro post! Una donna che viaggiava con me si avvicina: “Sei sardo? Si sente!”. Ha ascoltato una mia chiamata con mio fratello. Avevo fatto di tutto per non disturbare gli altri. Non ci son riuscito.

Il deserto del Wadi Rum in Giordania!

Parto presto da Petra, la camminata di ieri mi ha tolto ogni velleità di uscita serale.

Il buffet del mattino in albergo è ricco, cerco di non farmi fregare dall’abbondanza e dalla scelta: uovo sodo, toast, un po’ di latte macchiato di caffè, pomodori e olive. Un mix dolce e salato senza senso.

Oggi andremo nel deserto guidando per la Strada dei Re, che attraverso colline e vallate senza anima viva e con pochissima vegetazione. La Strada congiunge Amman a Petra lungo un percorso di circa 300 chilometri ed è una delle strade più panoramiche da percorrere in Giordania in alternativa all’Autostrada del Deserto, più veloce ma meno scenografica.

Piccole case provano a sfidare la terra giocandosi la modesta quantità di acqua che la zona offre. “Le persone dovrebbero tornare alla terra” mi dice Amjad.

Immancabile è il check point della polizia – ne vediamo e incrociamo o davvero tanti – un sorriso e un Assalaamu alaykum (la pace sia su di te) e si passa. Il territorio è ben controllato, nessun timore. I turisti e i viaggiatori sono visti con rispetto assoluto.

Amjad ferma la macchina in un paesino e scende di corsa: dove sarà finito? Lo perdo di vista. Poi torna, correndo, sorridente e risale con due focacciozne olio e origano. A quel paese la mia dieta, mangiamo a metà mattinata! E questa focacciona è una bella botta. Tutto è concesso!

La prima pausa in un viaggio che durerà circa due ore e mezzo è in un bar con un vista strepitosa. Il cartello non lascia dubbi: Resthouse, the best View in the world. Le promesse, di fronte a un buffet di tabbouleh, humus, falafer, il pane pitta e il knafè, oltre a pomodori, olive, insalate varie, conquistato da un gruppo di tedeschi, sono mantenute. Un buon caffè turco e due foto e si riparte!

Ancora curve e prima di arrivare al deserto passiamo per la Piccola Petra nota anche    come Petra la Bianca o Siq al-Barid (Canyon Freddo). Anche qui c’è un pezzo di storia nabatea con diversi edifici scolpiti nelle pareti dei canyon di arenaria. 

È molto più piccola rispetto a Petra, un canyon di 350 metri che si percorro senza troppe difficoltà in una mezz’ora e che si conclude con l’immancabile baretto/bazar con il beduino che propone tè, caffè e incensi.

Anche qui risento l’atmosfera magica e surreale interrotta solamente dalla musica e dal canto di un simpatico anziano beduino e dal pianto di un bimbo subito consolato dai genitori.
Il deserto si avvicina. Lasciamo la macchina in una stazione di servizio e saliamo su una prima jeep. “Non vorrai mica salire dentro! Tu sei l’ospite speciale”. E io, un po’ perplesso, mi accomodo dietro. Sciarpa e occhiali. Al sole, al vento. La temperatura non è proprio primaverile ma quella corsa in jeep mi concilia col luogo. 

Grandi montagne si stagliano davanti e intervallano distese chilometriche di terra e sabbia. Una lunga striscia grigia prima di lasciare l’asfalto, costeggiando una piccola linea ferroviaria che è destinata al traffico merci e a qualche convoglio turistico! Effettivamente vedere il treno qui è una novità e penso subito al Treno di Tozeur di Battiatiana memoria.

Ammiro l’avvicinarsi del deserto e le sue braccia immense aprirci e diventare la nostra terra sotto i piedi. Rocce, sabbia, cammelli in lontananza, sassi, piccole piante secche, spazi che si perdono, cielo. 

Quando scendo dalla jeep comincio a connettere razionalmente che non sto in un posto qualunque: il deserto è un posto speciale. Il deserto è IL posto.

Mi accolgono subito al villaggio, il capo si presenta con un sorriso e una stretta di mano, ho tempo per sistemarmi nella tenda perché mi aspetta un’altra jeep che mi porterà in giro. Poi la tenda. Una stanza accogliente, addobbata di arazzi, con un letto comodo, delle coperte per la notte, un ventilatore e quando apro le tende davanti, il deserto a due passi e il cielo.

La posizione è davvero speciale, ringrazio gli amici del campo per questo regalo inatteso.

Quando usciamo di nuovo, il 4×4 entra nel ventre del grande Wadi Rum,  il più bel deserto del mondo, teatro anche delle avventure di Lawrence d’Arabia che visse qui tra il 1916 e il 1918 durante la grande rivolta araba e usato per ambientare molti film di fantascienza e avventura nello spazio.. Paesaggio lunare e marziano, con la terra rossa.

Grazie alla bellezza di questi paesaggi, il Wadi Rum è diventato un luogo famoso.  

Tocchiamo diversi punti, un canyon con alcune iscrizioni rupestri di Nabatei che lo hanno abitato, una duna altissima dove scommetto per 5 dinari di salire in 5 minuti – credo di aver rispettato la scommessa nonostante il fiatone e il cuore che batteva a mille- e ancora una specie di autogrill isolato. 

All’ingresso un ragazzo, in cambio di una piccola offerta, ti offre una tazza di tè con salvia e cardamomo in un bicchierino di vetro che gusti seduto in comodi divani circolari.  Intorno a me donne con il velo, anziano con abiti tradizionali, tutti sorridono, conversano e soprattutto mi ritrovo unico occidentale, tra gente del posto, seduta vicina che ti scruta in maniera curiosa e gentile. Quella cartolina di vita, così onesta e sincera, è un salto nel passato mi fa tornare indietro nel tempo, alla vita di paese della mia infanzia.  Amjad mi racconta che qui si fa una sosta per i tragitti e si trovano spesso pellegrini provenienti da altri paesi arabi.

Quando torniamo al campo ho un’ora di relax e poi un’altra uscita: la gita in cammello fino al tramonto!

Mi concedo qualche passo sul deserto, fuori dalla mia tenda: stupito dal silenzio e dall’idea di piccolezza rispetto a tutto quello che mi sta attorno. E’ una sensazione di connessione con l’universo che faccio fatica a sentire, abituato a rumori molesti e a quell’odioso sottofondo delle città. Ridete voi sapendo che faccio pure il DJ.

Come una carezza delicata il vento passa da una parte all’altra muovendo qualche cespuglio. Un rumore di aereo lontano e il movimento di qualche jeep poi nulla. Io e il deserto, soli.

I cammelli ci aspettano! Un tragitto lungo, senza raccontarvi la paura quando il tranquillo animale si solleva e scende, accompagnato da un beduino gentile che non sa una parola di inglese ma che mi rassicura prendendomi le mani e indicando dove devo tenermi. 

La camminata dura un’ora e lui, rilassato e pacifico, guida i due cammelli verso una duna da cui godermi il tramonto. Mentre cammina, con passo sicuro, con una invidiabile serenità, mi chiedo a cosa stia pensando, a come sia la sua vita. E mi dispiace un po’: mi prometto di non salire mai più su un cammello. La prima sensazione esperienziale ha dato spazio alla consapevolezza che non ci debbano essere persone o animali sfruttati mai in nessun modo. Lo so che noterete l’incoerenza del mio pensare rispetto a tante altre situazioni simili, ma questa è stato il pensiero mentre dondolavo!

Quando rientro le luci del giorno oramai andate via e il campo è una suggestione di luci e ombre. Il vento è salito e per restare fuori il fuoco acceso è un valido compagno di sopravvivenza. Gli uomini del villaggio tolgono dalla sabbia un gran pentolone fumante: è lo zarb. Questo piatto è servito solo qui al Wadi Rum. Si tratta di una pietanza a base di carne e verdure che viene cotta sotto la sabbia e ammorbidita con salse come lo yogurt e spezie piccanti.

La cena è in una grande sala di tappeti, narghilè e divani colorati con un ricchissimo buffet di piatti tipici, oltre a pane e verdure arabe. Tutto è lento e conviviale. Ci sediamo attorno, nessun tavolo per dare le spalle a qualcuno. Siamo io e altre tre turiste francesi. Ci scambiamo sorrisi e sguardi. Ho il mio taccuino davanti, scrivo ogni cosa che mi passi per la testa. Fuori  è buio e ci siamo siamo noi, ultimo baluardo di umanità. Ma chi sarà davvero il più forte dentro un deserto? Noi uomini o la natura?

Quando finiamo non sono neanche le otto e mezzo. Il vento è salito, ma Amjad e gli altri mi invitano ancora per un the davanti al fuoco. Come puoi aver freddo e sentirti solo e triste in un posto così? La stanchezza però c’è, lo ammetto. Mi rifugio nella mia tenda per leggere un libro finchè il battere della pioggia non viola quel silenzio religioso. Accolgo con gratitudine quel picchettare sulle fragili pareti e tutto quello che porta. Mi pizzico ancora nelle guance chiedendomi se sia tutto vero e io sia davvero qui, nel Wadi Rum.

Morfeo o chi per lui mi avvolge in un abbraccio finché i primi raggi del mattino non arrivano al viso. E’ l’alba. Il sole fa fatica a prendere il sopravvento nelle rocce. Ci riesce, stiracchiandosi. Mi godo ancora quel momento delicato, quel tempo lento, quel silenzio meraviglioso, come fossero un balsamo magico. Scrivo qualcosa, un gatto mi fa compagnìa per poi perdersi tra le rocce. La colazione è servita. Il campo si anima, gli zaini si preparano per la partenza. Le jeep tra poco arriveranno e tutto sarà un ricordo. Non è ancora il momento di andare. Quel silenzio del Wadi Rum è uno dei più grandi regali che abbia mai avuto!

Un giorno a Petra, con l’incredibile storia dei Nabatei

Quasi tre ore di auto mi aspettano da Amman a Petra. Lascio la grande capitale di primo mattino, nel traffico chiassoso del lunedì, e via, per un’autostrada che taglia in due la Giordania.

Si aprono scenari rocciosi e desertici. Piccoli villaggi, stazioni di carburante, bar improvvisati con insegne scritte a mano, uomini che ti invitano il caffè con un curioso coperchio e l’indicazione a fermarsi – all’inizio pensavo fosse solo per trovar parcheggino – officine che puliscono e cambiano gomme, persone sedute al bordo strada a guardare chi passa, distanze immense in cui spuntano spicchi di vita quotidiana, il volto puro della Giordania e del Medioriente, quello che più amo! Questa è una strada importante che conduce anche i pellegrini alla Mecca.

A metà tragitto, ci fermiamo in uno dei pochi autogrill che si trova nella zona di Karak. Amjad me lo suggerisce dicendo che qui c’è un buon caffè, un negozio per qualche ricordo e i bagni sono puliti. All’ingresso delle toilette – tra l’altro tutte col doccino! – è buona regola lasciare una piccola offerta.

Compro qualche souvenir e il keffiyeh, il copricapo tipico bianco e rosso, il suo colore in Giordania – che chiedo di sistemarmi a un ragazzo che lavora nel negozio. Mi spiega come funzioni e con lentezza lo dispone sulla mi testa arrotolandolo e sistemandolo bene. Che strano vedermi così, e anche sentirmi addosso un loro capo mi fa sentire ancora di più parte di questa comunità!

Il sorriso non manca mai e anche un caffè rigorosamente turco: ne farò incetta col suo gusto sabbioso e lungo che resta nel palato.

Quando lascio l’autostrada – non si paga pedaggio, l’asfalto è ottimo e ci sono vari controlli della polizia – le montagne si avvicinano. La salita comincia e dura almeno un’ora. Qualche godibilissima curva, qualche villaggio sperduto e la prima vista, da lontano, di Petra, che lascia senza fiato.

Arrivo a Petra!

Eccola, spettacolare! Come se fosse un mondo a sè, una creatura inserita in una scena già meravigliosa, tra ripide gole e montagne, in un luogo isolato e arido, tutto fatto di roccia e pietra (avrete tutti notato l’assonanza!). Un luogo che, basta pensarci, ha permesso che questa civiltà si preservasse ed è poi diventata, nel 1985, patrimonio mondiale dell’Unesco.

Vivere Petra è ben diverso dal guardarla su video o in foto. Superata la fila dei cancelli, mi tocca una prima camminata su uno sterrato aperto, che ancora non fa trapelare nulla se non alcune rocce erose e lavorate dal vento e dall’uomo.

Poi, superata qualche curva, inizia il Siq. Il nome arabo significa “la gola”, è un tragitto lungo uqai 2 chilometri, serpeggiando a destra e a sinistra, che si allarga e restringe. Un anfratto con pareti altissime che, a tratti, impediscono quasi di vedere il cielo!

Un po’ di storia con i Nabatei

Qui passavano le carovane dei mercanti che hanno lasciato iscrizioni, rilievi, piccoli buchi scavati dove venivano posti i simulacri delle divinità e al pavimento le offerte. Sui lati scorrono dei canali per portare l’acqua nel centro della città. E allora non posso che scoprire, grazie anche al racconto di Amjad, la meravigliosa storia dei Nabatei, un popolo di origine araba e nomade che non avevo mai sentito nominare a scuola. Al secondo secolo a.C. erano ormai sedentari e organizzati in una monarchia florida.

La loro capitale divenne Petra e i loro territori si estendevano in una regione a Sud del Mar Morto ed a Est della Giudea. Petra divenne una città abitata da circa 30mila persone e importantissima a livello commerciale. I Nabatei erano dei mercanti e aprendo la cartina geografica – ogni tanto fa bene capire dove sono! – scopro che la posizione del sito non è casuale: è tra Oriente e Occidente e permette di collegare i mercati dell’Egitto con quelli della Siria. Una posizione difficile da attaccare e facile da controllare da chi la abita. C’erano da difendere tesori come l’incenso, la mirra, le spezie, prodotti richiesti e costosi. C’era da difendere l’incolumità di quella città.

Amjad mi racconta che c’è ancora tanto da sapere e da scoprire su Petra ma il fascino e l’ammirazione per i prodigi e le architetture scavate nella pietra arenaria di colore rosa sono già tanti.

Non vi ho raccontato che questi anfratti sono anche e soprattutto abitazioni e tombe alte fino a 30 metri. Anche qui c’era la differenza di caste: le migliori per dimensione e cura dei particolari erano di chi rivestiva ruoli più importanti, le altre dei cittadini semplici.

Petra riuscì così a prosperare grazie all’abilità dei suoi abitanti, diventò una delle città più ricche al mondo durante l’antichità almeno fino all’arrivo di Roma che ne decretò il controllo.

Eppure i Nabatei non si diedero per vinti e ripresero le redini. Con la politica condotta da un sovrano di nome Areta IV, arrivano a controllare anche Damasco, in Siria, e una regione parte dell’odierno Libano. E solo più avanti tra il 9 a.C. e il 40 d.C. riuscirono a svincolarsi dal controllo di Roma e ottenere che il loro regno venisse riconosciuto.

Il tesoro, la meraviglia!

In questo periodo, venne scavata nella roccia la tomba monumentale che ancora oggi tutti associano a Petra, il El Khasneh (Il tesoro). Forse la ricordate per un film che si chiama Indiana Jones? Ebbene sì, è quella, è l’architettura di Petra più fotografata, ha circa 2000 anni e oggi è considerata una delle opere più note al mondo. Alta 40 metri e larga circa 25, la leggenda narra nascondesse – magari anche oggi? – un immenso tesoro mai trovato.

Petra conobbe poi il declino e il controllo romano con Traiano: i segni si vedono ancora. Il regno dei Nabatei divenne provincia, la capitale venne spostata a Bosra e i romani costruirono edifici, anche di notevole pregio artistico, infrastrutture e strade.

Una camminata faticosa ma bellissima

Tornando ai giorni nostri, il sito è esteso con un po’ di fatica basta una giornata (ma se non siete allenati lasciate proprio perdere e prendetevi più tempo).

Ci vogliono buone scarpe e forza d’animo sia per le distanze sia perchè ci sono impervie salite e scale, come quella per arrivare al Monastero una colossale facciata di quasi 50 metri di altezze larghezza. C’è anche un bar proprio di fronte, ma non mi fermo subito: scopro un bel panorama con pochi minuti di cammino. Uno scenario che domina sulla Terra Santa, incuriosito dal cartello “Vista alla fine del mondo!”, che, per la verità, mi aveva fatto pensare a un pacco. E invece…!

Ma Petra è anche altro. Passo davanti a tanti siti monumentali, il Tempio, il Teatro, la Tomba del Palazzo e tanto altro ancora. Incrocio curiosi bazar che diventano gallerie coperte, bancarelle che vendono tappeti, collane, incensi, souvenir, teli, statuette, bar e piccoli rifugi per rifocillarvi con un panino kebab, un caffè, un tè e una bottiglia d’acqua ma anche qualche beduino che dall’alto mi osserva curioso mentre faccio una foto. Sono ammaliato dai profumi di incenso e dal calore di piccoli bracieri dove i mercanti si riscaldano e tante piccole situazioni belle e inattese, dialoghi, saluti, sorrisi.

I beduini chiedo una piccola offerta se volete un passaggio in asino o con un piccolo mezzo elettrico. Se vi fa piacere, se ne avete bisogno, accettate contrattando (3-5 dinari) o dando una piccola offerta, altrimenti un sorriso e un no, thanks e andate per la vostra strada.

Io son sempre in difficoltà a contrattare ma superata la paura è tutto divertente e normale! Tanti beduini, mi racconta Amjad, si guadagnano la giornata così e il covid, che ha chiuso la Giordania al turismo, ha ridotto in povertà tanti, non dimentichiamolo mai!

Petra affascina e anche se dovrete condividerla con turisti non troppo educati e rumorosi (indovinate di quale nazionalità soprattutto?), vale la pena! Ci son tante leggende e curiosità in questo mondo così lontano e pieno di mistero. Una storia che non conoscevo. Una storia in movimento visto che il sito nasconde altri tesori che emergeranno dagli scavi.

Note da viaggiatore

  • Ci son tanti alberghi dove soggiornare a Petra. Una notte è necessaria per godervi davvero l’esperienza.
  • Potete godervi la suggestione di Petra illuminata con Petra by night, un evento alcuni giorni la settimana che prevede l’apertura serale e notturna
  • Ricordatevi che per entrare a Petra ci vuole il Jordan Pass un pacchetto turistico pensato ad hoc per i visitatori della Giordania che vi facilita l’ingresso nei siti (ecco il sito ufficiale https://www.jordanpass.jo)

Amman e il viaggio in Giordania

Le atmosfere del mio ultimo viaggio tra Slovenia e Croazia  sono un ricordo lontano. Quando lascio il caos di Roma e salgo sull’aereo che da Ciampino mi porta ad Amman, qualcosa di magico sta per ritornare: il mondo mediorientale, che ho avuto la fortuna di scoprire in Libano e che ora ritrovo qui in Giordania.

La Giordania era sulla mia lista da molto tempo, ma avevo bisogno di coraggio per prendere il volo e andare oltre le mie destinazioni abituali.

Mi viene a prendere all’aeroporto la mia guida, Amjad. Il tragitto di mezzora mi permette di conoscere qualcosa in più delle mie poche informazioni sulla Giordani. Amjad, stuzzicato da me, racconta la speranza e il sogno di un popolo che vuole crescere aperto al mondo senza perdere le proprie radici. Parliamo di politica, tradizioni, curiosità, confini, cibo e storia.

Lui ha vissuto a Torino per molti anni, ama l’Italia e tifa – purtroppo – per la Juventus. Tra scherzi e riflessioni, mi piace sapere com’è la vita in Giordania, sul come abbiano affrontato le scosse sismiche che hanno comunque toccato paesi vicini, e sulla situazione delle migrazioni vista la sua posizione geografica.

Intanto le case in marmo bianco si diffondono in campi giallognoli, e capisco che la città sta ancora crescendo e espandendosi. Quando il profilo di Amman, fatto di colline e alture, appare all’orizzonte, inizio ad avere idea della sua grandezza.

L’autostrada strada è larga e le auto procedono veloci. Ogni tanto passiamo un ponte con le bandiere nazionali che sventolano mosse da un leggero filo di vento.

Continuiamo a discutere di libertà e lui mi racconta come la Giordania, con i suoi 10 milioni di abitanti, ospiti ben 2 milioni di rifugiati palestinesi e circa la metà della popolazione ha origini palestinesi. Nonostante sia un paese piccolo, desertico e relativamente povero, con solo una piccola parte del territorio coltivabile, la Giordania ha sempre aperto le sue porte ai rifugiati provenienti da paesi vicini coinvolti in conflitti, come Palestina, Iraq e più recentemente Siria.

Quando finalmente siamo in città, mi immergo subito in questa eccezionale atmosfera, circondato da antichi resti di civiltà che sopravvivono e lasciano il loro segno nell’essenza stessa del regno e nell’anima della gente.

Il centro vero e proprio di Amman – la Downtown – è a 9 chilometri dal mio albergo, che sta nella parte nuova, avveniristica e ricca di edifici ultramoderni, hotel, ristoranti eleganti, gallerie d’arte e boutique. Tuttavia, decido di andare per capire se quella città descritta da Amjad come un ponte straordinario tra i continenti europeo, asiatico e africano, che nasce tra il deserto e la fertile Valle del Giordano sia quella che troverò.

Il traffico è intenso e ho l’opportunità di conversare con il mio tassista di Uber, un inglese che ha sposato una donna giordana. Uber qui permette di spostarsi evitando quello che io detesto: la contrattazione con i tassisti. Dovrò migliorarmi però.

La sua parlata è lenta e cordiale. Durante il tragitto verso il centro, mi offre una caramella e inizia a raccontarmi cosa troverò.

Quando arrivo, la città ha i colori del tramonto. Scendo dall’auto e vengo travolto dalla folla, dal caos, dall’anarchia fatta di insegne in arabo, negozi di ogni genere, fumo, gente che cammina, scatole, furgoni, autobus che cercano di farsi strada, grida, muezzin che pregano dagli altoparlanti delle moschee, merci , edifici in pietra che si ergono verso il cielo e stretti vicoli che si snodano tra le case. Ci sono pochi turisti. I caffè nascosti lasciano spazio alle piccole botteghe degli artigiani e venditori ambulanti.

Il mercato centrale di Amman, che non capisco dove inizi e dove finisca, è un’esperienza emozionante, che mi fa sentire parte della vita locale, tra le voci dei contrattanti, le donne in abiti tradizionali che scelgono con cura la frutta, i profumi di spezie e di carne arrosto, i gioielli, i tessuti e le ceramiche.

Non c’è da aver paura: l’atmosfera è caotica e affascinante, e ti senti subito a casa. Gruppi di anziani che giocano a carte, venditori di caldarroste fumanti e gesti e sorrisi, uniti alla conoscenza dell’inglese, ti fanno sentire accettato e risolvono qualsiasi distanza. Attraversare la strada può essere un po’ complicato a causa della mancanza di strisce pedonali, ma ci riesco!

Passeggiando lungo Rainbow Street e girando per i vicoli, scopro nuovi scorci e momenti di pace inaspettati. Una musica araba prende il sopravvento e mi sforzo di capire da dove provenga. Vedo che tutti mangiano una sorta di dolce. Chiedo a un signore di mezza età come si chiami e scopro il nome:il kunefe! Viene venduto in una piccola sala a cui si accede con una fila. È un dolce a base di pasta fillo e formaggio e delizioso! Riesco anche a infilarmi in un bar per prendere un sabbioso caffè turco.

Man mano che si avvicina l’ora di cena, i colori della Downtown cambiano. La gente freme al banchetto per gustare il mansaf, un piatto a base di riso e agnello, servito con una salsa di yogurt, e il shawarma, un sandwich con carne di pollo o manzo e verdure all’interno di una piadina calda.

L’aria si riempie del fumo dei contenitori di tè alla menta, che viene servito ovunque, dai ristoranti ai caffè, e del sahlab, una bevanda calda a base di latte, amido e spezie. Ci sono anche negozi che vendono succo di frutta fresca, spesso fatto con frutti come melograno, mela e carota. Un uomo cerca di vendere biglietti della lotteria, mentre un altro vende degli allunga-scarpe disposti su una scatola di detersivi. Un anziano signore ripara abiti con la sua macchina da cucire in mezzo al marciapiede. Le immagini della famiglia reale sono ovunque, e in qualche bancarella vedo foto di Saddam Hussein e bandiere dell’Argentina. Tre uomini scaricano velocemente un furgone mentre una macchina cerca di farsi strada tra le scatole troppo vicine. Un banchetto dispone dolciumi colorati per la felicità dei bambini curiosi. Poi c’è l’Anfiteatro, a cui si accede liberamente, un monumento spettacolare e ben curato che fa da cornice a una partita improvvisata divertente tra ragazzi ben vestiti per la domenica.

Quando decido di tornare in albergo, sento che Amman mi ha già accolto con un delizioso tè, con il malinconico canto del muezzin, e con la sensazione di vita e umanità che solo il sud del mondo può darmi. La gente è gentile e semplice.

Amman è una città giovane e fresca, che rappresenta una nazione in pace che accoglie i rifugiati dei paesi vicini, una nazione in cui nessuno ti disturba se non per un sorriso e per rispondere al tuo “Salam”.

 

 

Tre giorni a Zagabria!

“Vai a perderti”. E’ un po’ la frase che guida i miei viaggi. Poche certezze, niente mappa, unico riferimento è dove alloggio. Poi magari cerco informazioni dopo esser stato nei luoghi dove capito o scatto foto e allora è un wow. 

Il mondo balcanico mi intriga sempre di più, ve l’ho detto! E ho messo un’altra bandierina – dopo Lubiana e Belgrado – a Zagabria, città interessante, specie nei periodi dove le orde turistiche son lontane e ti senti, quasi, l’unico viaggiatore!

Da Lubiana ho preso per unica possibilità un transfert non troppo economico – pensavo a un minibus è arrivato un Mercedes da star  edopo ben tre ore di autostrada perfetta e paesaggio innevato eccomi a Zagabria.

Purtroppo, va detto, i collegamenti nella ex Jugoslavia non sono perfetti: non c’è una sviluppata e diffusa rete del treno che tocchi tutte le città e ci si affida perciò a bus e auto. 

L’auto mi lascia all’ingresso della città, all’Hotel Antunovic, quartiere Precko. Mi basta poco per capire che sono lontanissimo dal centro. Casermoni alti e palazzi lineari sono il primo assaggio di Zagabria, con piccoli negozi di vicinato, una panetteria, un bar, un fruttivendolo e gente che frequenta un parco verdissimo.

Cerco subito i miei punti di riferimento: la linea dei bus o dei tram e un posto per fare i biglietti. La signora dei tabacchi accetta carte. Per fortuna! Mi ricordo che da pochissimo la Croazia è dentro l’euro (la doppia circolazione è finita il 14 gennaio) e non è per nulla scontato che lo facciano tutti (troverò anche chi non le accetterà!).

Il tram è il 17, cinquanta minuti per raggiungere il centro. Questa immersione nella vita normale di città, fuori dai percorsi centrali, mi piace assai: studenti, signore con una pesantissima spesa appena fatta, uomini dall’aria di docenti universitari, donne con bimbi di rientro che hanno ancora i giochi in mano, giovani attaccati al telefonino e immancabili tute firmate. C’è tanta umanità mentre la città scorre e i palazzi incolori della periferie si fanno vetrine e poi eleganti costruzioni.

ARRIVO AL CENTRO!

Quando tocco il centro leggo in uno dei cartelli Ilica Street (una via lunga quasi 6 km), luogo di shopping con marche costose e altri brand conosciuti. Sarà il mio punto di riferimento anche se ci bazzicherò poco o nulla. Ma quando si viaggia i punti di riferimento sono pochi, per poi andare liberi e casuali.

Decido di scendere in una fermata che mi ispira e affidarmi al flusso della gente. In pochi minuti incrocio la prima grande piazza, Ban Jelačić,  snodo di varie linee del tram e riservata ai pedoni. Immagino sia un luogo di ritrovo per eventi e concerti, con edifici e case in una certa varietà di stili architettonici, dal Biedermeier all’Art Nouinveau e al Postmodernismo.  Le persone qui si incontrano, c’è un’atmosfera vibrante e piena di vita, sotto l’orologio, e presso la coda di cavallo – un’allusione alla grande statua di Ban Josip Jelačić su un cavallo che ha posto al centro della piazza.

Il mio alloggio è a un chilometro dal centro, lascio tutto dopo un veloce check in  – la stanza è comoda e ha una finestra con vista sulla città – e così comincia la prima esplorazione ancora eccitato dall’arrivo. Punto alla chiesa più alta, camminando nella sua direzione. Leggo che è l’edificio più alto della Croazia, la Cattedrale e domina su sul quartiere storico di Gornji Grad. Questo quartiere, che sarà il mio luogo centrale, ha strade fatte di ciottoli e antiche case con tegole rosse.

SORPRESA… IL MUSEO DELLE RELAZIONI INTERROTTE

Poca gente in giro, anche se son le cinque – l’aria sussurra già voglia di cenare! –  i caffè si riempiono e qualcuno si affretta a fare gli ultimi acquisti. Trovo una scalinata e decido di percorrerla, e mi trovo, quasi casualmente nella chiesa di San Marco con un suo elaborato tetto di tegole. Che particolare! Il suo tetto rappresenta le armi del Regno Tripartito (Croazia, Dalmazia e Slavonia) e della città di Zagabria. Trovare pertugi anonimi che aprono nuovi scorci di città è uno dei miei segreti di viaggio e anche Zagabria riserva tanti segreti.
Proprio là vicino, una piccola sorpresa: il Museo delle Relazioni interrotte. Entro incuriosito  pensando che sia una fregatura, 5 euro di biglietto, p “chissà che cosa propinano questi ai turisti” e invece… Il museo è una bomba! Una esposizione di oggetti accompagnato da una storia ironica o triste che lo contestualizza, e spiega quale sia il suo significato, al di là di quello universale. Un paio di scarpe da ginnastica, una clessidra, un ciuffo di capelli, un dildo, un registratore C’è un vasetto di cetriolini acquistati da una ragazza per il suo primo amore, che però ha smesso di rispondere ai messaggi dopo due mesi insieme. E lei non ha mai avuto la possibilità di dargli quel barattolo. Amori perduti, amori non corrisposti ma anche amicizie profonde!

Il freddo si fa più forte e cerco un posto per cena, ancora emozionato da quel museo. In zona trova un ristorante old style, nel senso anni 80 del termine, che si chiama Purger. Il
personale parla poco o nulla l’inglese. Appena mi presento, la giovane ragazza che sta al bancone – un vecchio pezzo di acciaio con bottiglie datate – mi sorride ma risponde in croato. Ordino pollo con patate e una birra locale. Quando vado via sorridiamo insieme perchè comunque ci capiamo, nonostante tutto! Ed è questo bello: riuscire sempre a capire e sorriderci.

DAL MERCATO AL CENTRO STORICO

La mattina dopo comincio da Kaptol Square, il mercato Dolac con un cappuccino in un bar di quartiere affollato da anziani che fumano tranquillamente dentro (è concesso?) e parlano ad altissima voce. Nelle bancarelle le donne preparano la frutta con attenzione scientifica. Posizionano i cartelli e i prodotti più colorati davanti. Qui arrivano commercianti  da tutta la Croazia per vendere. Dolac sta tra la Città Alta e la Città Bassa. Oltre a questo mercato, più laterali ci sono bancarelle al coperto che vendono carne e latticini e, poco più avanti verso la piazza, fiori. In un’altra parte, bancarelle cariche di miele di produzione locale e bigiotteria artigianale si affiancano a chioschi dove si mangia spendendo poco.

Riprendo la rotta della cattedrale. Leggo che la chiesa è stata continuamente riparata per più di 20 anni e dovrebbe essere completata nei prossimi anni. Mi ricorda la storia della Sagrada famiglia di Barcellona e anche qui la struttura ha due torri simmetriche scolpite con un’altezza di oltre cento metri in architettura gotica. Vicino, c’è una zona molto bella e intima che è via Tkalciceva, fatta di case dai colori tenui in stile est europeo, sotto la strada piena di caffè e ristoranti. Proprio in uno di questi mi fermo per lavorare un po’ e bere un caffè e una birra, sfruttando anche il calduccio all’interno.

DENTRO IL TUNNEL

Lo stomaco chiede e allora vado a pranzo al Nocturno, sempre in zona. Insalata e pollo. Risalgo la città vecchia e voglio rivedere alla luce del sole tutto il panorama. Ripasso per la chiesa di San Marco, visito un vicino museo di arte naïf – pittori sconosciuti che raccontano la vita di campagna – e poi vado alla ricerca del tunnel Gric, una delle testimonianze della sanguinosa guerra di pochi decenni fa. In realtà venne costruito nel 1943 per permettere ai civili di ripararsi dalle bombe della Seconda guerra mondiale, e riutilizzato all’inizio degli anni Novanta per motivi analoghi. Curiosità è che le gallerie ospitarono dei rave, eventi musicali gratuiti e di solito autogestiti, frequentati da appassionati di musica techno. Queste serate diventarono parte della storia musicale locale, in particolare nel caso della prima del 1993. L’organizzatore dei rave fu Damir Cuculić, nativo di Zagabria e appassionato di musica disco e hip-hop. Negli anni Ottanta faceva il dj un primo rave e poi il 30 ottobre 1993 ne organizzò un altro nella sempre nel Tunnel Gric.

TRA CULTO E REVIVAL

Quasi per caso – il caso del viaggiatore! – nella mia camminata incrocio la Porta di pietra che conduce alla vecchia città di Gradec (Città Bassa). E’ un piccolo luogo suggestivo, un cancello che porta (o fa uscire) alla parte medievale. Una volta entrato, ci sono candele e iscrizioni, una piccola cappella. La storia dice che il fuoco del 1731 distrusse il cancello, ma quando il fuoco e il fumo si placarono, sembrava che l’unica cosa sopravvissuta fosse un dipinto della Vergine Maria con Gesù. Qui le persone restano per pregare, accendere candele e offrire ringraziamenti per le preghiere esaudite e le pareti della cappella sono coperte da messaggi di gratitudine.

A pochissimi passi si trova un altro must: il museo anni 80 di Zagabria. Come
tornare indietro nel tempo, entrando in un appartamento con arredi ed oggetti appartenuti a quegli anni. Non ci sono recinzioni, puoi toccare e usare tutto, dai dispositivi elettronici dell’epoca fino agli elettrodomestici. E allora poster, walkman, macchine per scrivere, libri, detersivi, conserve, libri, telefoni, stereo, tutto direttamente dalla ex Jugoslavia degli anni ’80. Potete pure indossare gli abiti! Oltre la nostalgia, la curiosità di un mondo che davvero ogni volta mi colpisce!

 

Senza entrare in dispute politiche (vi prego!), oltre il confine orientale ci sono paesi sempre interessanti e ricchi di fascino e mistero, con una storia diversa dal nostro. Le capitali dell’Est, con il loro mondo e le loro usanze, con piccole e grandi curiosità da conoscere. 

Quando vado via da Zagabria con il mio immancabile Flixbus che farà cinque ore per tornare a Trieste, so di aver lasciato un altro frammento di cuore in questa Europa, fatta da eredità architettonica di tipo sovietico, palazzi, silenzi, scritte illeggibili, gente cordiale e strade fredde solcate da vecchi e nuovi tram.

Il fascino dimesso dell’Est, ecco! Quelle domande “ma cosa vai a fare?”, “attenzione a non dare nell’occhio” e “ma c’è qualcosa da vedere?” che mi hanno creato ancora di più la curiosità. E la curiosità non ha ucciso il gatto, lo ha rinforzato!

Ogni posto sconosciuto merita di essere esplorato, ogni luogo dove è passata la storia – e che storia – ha qualcosa da dire. E si torna sempre più ricchi di prima.

Tre cose da mangiare 

Il Ćevapčići è un piatto a base di carne che deriva dal kebab, una polpettina cilindrica a base di carne di manzo e agnello, cotta alla piastra o sulla griglia. 

La Zagrabacki odrezak è il piatto tipico di Zagabria a base di carne. E’ una bistecca di vitello fatta di due fettine di carne, piena di prosciutto e formaggio, poi impanata e fritta.

Il palacinke (che deriva da un dolce ungherese), che è una specie di crepes che va gustata arrotolata e  farcita con cioccolato, panna o confettura.

Come spostarti

Zagabria i mezzi pubblici sono abbastanza efficienti e puntuali. I biglietti si fanno nei tabacchini. In generale, è una città che si gira tranquillamente a piedi. Non siate pigri!

Un giorno a Lubiana, la tranquilla capitale Europa

Lubiana era una di quelle città che mi girava attorno da tempo ma mai avevo preso in considerazione. Lo ammetto. Sapevo molto poco, così come so molto poco di questa zona di mondo. Ma, come sempre mi accade, una giornata e mezzo – inutile forse per capire e vedere – ha aperto le porte alla voglia di tornarci.

Alla fine, complice il caro amico Giuseppe Marcialis, ho trovato anche la soluzione ai miei dubbi esistenziali: oltre la Spagna, oltre il Portogallo amo l’Est europeo, le capitali dei paesi ex comunisti – sì, lo so, la ex Jugoslavia di Tito ha una storia diversa – mi affascinano con quel loro mito, quell’alone di mistero.

Mi sono reso conto che tutto questo angolo di mondo – ho visto già Tirana e Belgrado – non assomiglia molto all’Europa centrale, ma ha una propria caratura, dei segni distintivi che lo rendono speciale. Come ogni destinazione.

Lubiana è una delle capitali che lo dimostra. Una delle capitali più piccole ma in quella dimensione si racchiude molta bellezza semplice. Del resto, significa “amata”, e non ci vuole molto per cadere sotto il suo fascino. Non sembrerebbe ma ha 300.000 abitanti, che ci sono più spazi verdi in città che case, un fiume al centro, quasi metà della superficie della città è coperta da foreste native.

Lasciata Trieste ci vuole un’ora e mezza per aprirsi al nuovo mondo. Autostrade veloci, neve, paesi che appaiono e scompaiono. Slovenia! Quando arrivo è già sera e posso immaginarmi solo lo spettacolo che mi aspetterà domani. Mi godo il presente, Lubiana nel suo abito luccicante. La poca gente in giro si affretta a rincasare o nascondersi in fumosi pub, i mucchi della neve ai bordi strada ricordano di una copiosa sventagliata bianca di poco tempo fa, le luci e i profumi mi accolgono anche camminando da solo nel freddo.

Alloggio a due passi dal fiume verde smeraldo Ljubljanica, con i suoi 17 ponti incrociati, tra cui il Triplo ponte di Plečnik e uno dedicato al simbolo della città: il drago. Lo troverò un po’ ovunque! La mia camera è un’accogliente, una mansardina ergonomica con vista sui tetti della città da cui si accede con una scala a chiocciola doppia.

Lascio lo zaino in stanza, accendo il termosifone al grado 5  per riscaldarla bene – ebbene sì, questo ammorbante calore mi entusiasma! – e inizio il mio primo giro di perlustrazione. Sono le sette e il centro storico si rivela una piacevole ragnatela di strade acciottolate ed edifici colorati coperte da tetti di tegole in terracotta. 

Alcune chiese svettano, e un castello arroccato su una collina ti guarda dall’alto quasi controllasse i miei passi. Chi mi segue sa che adoro le città con il mare vicno ma anche il fiume ha sempre il suo perchè. E il lungofiume si rivela un luogo ricco di vita e opportunità. Qui ci sono i bar, i pub, i piccoli ritrovi dove sorseggiare una tazza di caffè o una pinta di birra chiara.

Voglio subito buttarmi dentro qualche taverna dal sapore balcanico. Mi stuzzica questo Sarajevo 84. Scese le scale, con quella curiosità tipica del viaggiatore alla prima sera, la sala è piena di giornali d’epoca disposti nei lati del soffitto e un curioso cartello che indica le città vicine (Bihac, Banca Luka, Tuzla, per esempio) Un sorriso gentile, una parola di italiano e mi sento già a casa e mi accomodo in un tavolo che domina la sala, con una familiare tovaglia bianco rossa.

Ordino la salsiccia carniola che arriva con una copiosa pagnottella fresca e due salsine. Ancora
la birra Pivo, rigorosamente mezzo litro, e alla fine una grappa Domace (che significa domestica) e un dolce di noci e miele e ancora un caffè turco.

Quando vado via il freddo si è fatto intenso e una camminata liberatoria tra il silenzio e i pochi fantasmi che ancora girano per Lubiana, figlia anche dei fumi dell’alcool, mi anticipa come sarà la giornata di domani.

I raggi di sole del bagno mi svegliano presto. Il cielo è chiaro e i rumori della città sono piacevoli. Apro la finestra basculante per rinfrescare e la nuova città si presenta con l’abito del giorno! Piccoli edifici dai colori pastello accompagnano il dolce scorrere del fiume e il Castello, da lassù, ha contorni nitidi. 

Faccio colazione vicino al ponte dei lucchetti – a centinaia sono agganciati nei vari interstizi del parapetto di ferro – che in verità si chiama Ponte dei Macellai. Un nome non proprio incoraggiante. Il motivo è che è al centro dei banchi dei macellai del vicino mercato. Ci son statue dello scultore sloveno Jakov Brdar, creature deformate sulle balaustre del ponte. una grande statua di Prometeo, mentre le miniature sul recinto narrano con malizia gli eventi nei capanni. Il contrasto tra le sculture inquietanti di Brdar e i “lucchetti dell’amore” è effettivamente curioso.

Un toast, un cappuccino e una spremuta al bar Lockal mentre intorno la vita comincia. C’è un gruppo di studenti, poi ancora delle donne che ridono sguaiatamente davanti a un fumante cappuccino. Decido di salire fin al castello, evitando la funivia. Ma prima, di passaggio, c’è il mercatino all’aperto. Una bella mostra di verdure, frutta, pane, formaggi, ricotte fanno il paio con souvenir, abbigliamento troppo pesante per i miei gusti e piccoli oggetti regalo, come pietre luccicanti e gemme, sistemate con dovizia da Dora, così pare si chiami, sulla bancherella a bordo strada. 

La salita per il Castello è a vicina. Niente funicolare. Mi chiedo quale sforzo immane ci sia da compiere, perchè il primo tratto ha una bella pendenza, alla fine conterò meno di dieci minuti per godermi il panorama, fiatone e un po’ di esercizio. Con me ci sono altri due ragazzi e una ragazza bionda che porta in giro un cane tascabile. 

La vista è interessante, nonostante il freddo dell’altura. C’è un cocktail bar, chiuso, e delle panchine da cui osservare Lubiana. Immagino come sarebbe farci una festa con una consolle diretta sulla città!

Quando ridiscendo, ho tempo per una bella camminata sul vialone della città vecchia, che si chiama Stari Tra, prolungamento di Mestrni tra i rintocchi della Cattedrale di San Nicola.

Passata qualche banale marca da centro commerciale, che puoi trovare ovunque, i negozietti e le botteghe sono uno sfoggio di bambole, maglioni, piccole composizioni floreali, quadri e poi ancora piccole taverne dove gustare la Knanjska Klobasa, la salsiccia di carne tritata.

In un altro negozio ci sono riproduzioni in legno degli insetti con le facce buffe: un’ape, un grillo. Vicino, delle borse con le forme più curiose: un telefono, una chitarra, una lanterna. Chi potrebbe mai comprarle, mi chiedo sorridendo. Un ragazzo si abbraccia on un’amica, pare che non si rivedano da tempo. Immagino quante cose abbiano da dirsi. O forse si son trovati casualmente?

La camminata è lunga e rilassante, brevi rumori rompono il silenzio – una bici che passa, la medaglietta di un cagnolino che scodinzola, un rumore di tazzine – la vita pulsa, nonostante questa sensazione di assenza.

Quando decido di tornare verso la stazione dei bus, rifaccio tutto il lungo fiume controllando con ansia le distanze e i tempi. Qui l’aria è movimentata. Ci son scolaresche che immortalano il loro viaggio con una rumorosa foto di gruppo, turisti che fotografano tutto e tutti e veloci e sfreccianti ragazzi in bici (a proposito, state attenti!).

I caffè si riempiono di persone che cercano di trovare il loro posto al sole, in comode serie dal rivestimento in lana bianchissima, quasi si accomodassero su una pecora! La musica cambia a seconda del locale, come le giovani cameriere che fanno la spola tra il banco bar e i tavoli. C’è chi mangia già per il pranzo pesantissimi piatti composti sempre a base di carne o chi sorseggia un caffè. Un negozio di dischi mette in bella mostra un vinile di Elvis proponendo titoli di tempi musicali quasi dimenticati.

Scelgo il mio bar con gli sgabelli alti e una composizione di lampadine tenute da barattoli di conserve. Tempo di riordinare le idee, scrivere qualcosa, fare alcune telefonate. Il Triplo ponte di Plečnik porta alla piazza principale, Preseren. Curiosità è che non ci sia in mezzo nessun monumento a qualche eroe locale ma a un poeta, proprio Preseren, esponente del romanticismo europeo. Scriveva sonetti amorosi in lingua slovena.

La piazza racconta molto della città: è ingresso della vecchia città murata e si affacciano vari edifici, la chiesa francescana dell’Annunziata, i palazzi eleganti e borghesi di Frisch e Seuning e il grande Magazzino Urbanc (primo grande magazzino lubianese), e ancora casa Hauptmann e palazzo Meter.

Incantato da questo equlibrio, senza lo stress e il dinamismo di altre città europee, vado via da Lubiana. Il caos della stazione dei bus mi ricorda che purtroppo la magia dei centri storici dura poco. Va preservato quel momento. Il ricordo, lo sguardo, il profumo fugace del tempo passato. Il silenzio di chi per farsi amare non deve urlare.

I colori di Malta

Perché Malta? Perché Malta è uno di quei porti sicuri dove poter andare in bassa stagione e senza stress. Un posto fatto di profumi, mare e soprattutto colori.

Con la sua posizione nel centro dei Mediterraneo, Malta da sempre è crocevia di popoli, esperienze e culture differenti. Ed è proprio questo melting pot che continua anche oggi che ti stuzzica a farne un luogo interessante, ricco di sfaccettature e complessità da scoprire.

Un’ora di aereo e ti chiedi sempre perché abbia tardato tanti anni a visitarla.

La prima volta venni nel 2015, restio e allontanato dai luoghi comuni: caos, sporcizia e costruzioni. Tutti confermati, ma c’è dell’altro. Oltre un turismo cafonal e di massa che per fortuna è concentrato in estate. Puoi andare oltre e trovare quei motivi che ti fanno amare il Mediterraneo.

Storia, architettura e bellezze naturali, colori. Ma anche e soprattutto la leggerezza che ti fa amare il Mare Nostrum e le sue destinazioni, un po’ come cantava Juan Serrat.

Il colore è il fil rouge che invita a scoprire Malta, quel mix tra l’azzurro di mare e cielo soprattuo e quel colore beige-giallo paglierino che è la pietra calcarea con cui è stata costruita l’isola.

Passeggiando per città o villaggi, poi, ancora qualcos’altro illumina le facciate: le porte colorate (come pure i balconi, detti gallarijas) dipinti in verde o rosso, con variazioni sul tema) e con vistosi battenti, gli il-ħabbata.

Molti dei simboli sono riconducibili ad auspici di prosperità, potere e ricchezza.

Mdina, Valletta e le Tre città

La Mdina è l’antica capitale risalente al IV millennio a.C.. Sorge sul punto più alto della città da cui si riesce a controllare a 360° ogni arrivo dal mare.

Conosciuta come “La città del silenzio” perché ci abitano poco più di cento persone, ti abbraccia tra i suoi vicoli stretti e gli edifici tutti di colore giallo paglierino, le porte colorate e le strane maniglie a forma di pesce, che celebrano la storia di Malta legata al mare.

La Valletta fu fondata nel 1566 su una penisola rocciosa. Capitale dell’isola, è il principale centro culturale con chiese, palazzi nobiliari, musei e monumenti da visitare.

Lasciate subito la via importante, la Triq ir-Repubblica e buttatevi sulle vie laterali per scoprire angoli meno battuti. C’è poi una tappa imperdibile: la Concattedrale di San Giovanni. Caravaggio agli inizi del 1600, in fuga da Napoli, dipinse qui la “Decollazione di san Giovanni Battista” e “il San Girolamo scrivente”, ancora magnificamente custoditi.

A La Valletta svettano le architetture contemporanee di Renzo Piano. Il famoso architetto italiano è stato chiamato per ridisegnare il centro storico: tra le sue opere un nuovo edificio del Parlamento, un monolite spigoloso sollevato da terra, e un teatro all’aperto nelle rovine della ex teatro Reale

Vittoriosa, Senglea e Cospicua le Tre Città, raggingibili anche dalla Valletta (io ho preso una strana barcarola, condotta da loschi personaggi, dall’imbarco sotto i giardini di Barrakka): furono l’epicentro della resistenza di Malta al Grande Assedio dei turchi ottomani nel 1565 ed ebbero un ruolo centrale per la salvezza dell’isola.

Vittoriosa, in maltese Birgu, divenne la capitale al posto di Mdina dopo all’arrivo dei Cavalieri dell’Ordine nel 1530. Una passeggiata rilassante e due musei, come ad esempio il Maritime Museum il Palazzo dell’Inquisizione valgono la pena. A Vittoriosa sul Waterfront ci sono bar e ristoranti dall’atmosfera intima vi sazieranno.

Cospicua è la più piccola delle Tre Città dove, accanto all’eredità architettonica dell’Ordine dei Cavalieri, è possibile ammirare tre strutture che risalgono al megalitico: i luoghi di sepoltura di Ghajn Dwieli, Ta’ German e Ta’ Kordin. Mi son fermato per un caffè americano sugli scalini a due passi dall’Università americana (si chiamava Art Cafè).

Senglea è un piccolo paradiso di relax, dove è possibile passeggiare ammirando gli imponenti palazzi e la baia, magari dalla torre vedetta di Gardjola, uno dei simboli di Malta.

I colori non mancano mai, ovunque vi giriate.

Volevo parlare di Gozo ma vi rimando a una prossima puntata.

Dimenticavo: non sottovalutate gli autobus. Una vacanza lenta e immersiva per entrare nel quotidiano di Malta ha bisogno dei bus. Occhio agli orari, non sempre puntualissimi ma le linee coprono l’isola e il biglietto – con una tessera ricaricabile e vari abbonamenti – e costano davvero poco. Tutto a portata di cellulare. Checchè se ne dica, io viaggio sempre così, senza auto al seguito. E se qualcosa non funziona, mi rilasso e godo l’isola.

Lentezza e colori. Ma se non fossse così non sarebbe sud!

Malta, Caravaggio e la bellezza dell’arte

Guardavo opere del Caravaggio a Malta, la decollazione di San Giovanni Battista. E poi San Girolamo scrivente. Dal vivo, senza fretta, senza stress, catturato per minuti infiniti.

Da tempo quell’occhio sulle opere è cambiato. E le sensazioni, anche quelle, son diverse. Come la voglia di farne incetta sempre e ovunque, superando quella paura figlia di una educazione a dover vivere e sopportare il brutto che ci ha sempre circondato.

Il nostro occhio poi non riesce più a trovare le differenze: accetta tutto e si accomoda.

All’uscita della chiesa ho avuto un brivido. Mi son fermato e guardato attorno. C’erano le bancarelle, i turisti nel loro lento passeggiare, i negozi plurimarca di qualsiasi centro turistico.
Poi ho aperto il social e ho pensato: come ci siamo ridotti? Ma quanto è brutta e volgare la nostra vita?
Possiamo fare ancora qualcosa?

Forse iniezioni di arte e bellezza, pur nella nostra incapacità di percepirle nella loro totalità, ci permettono di lenire quel disagio di sentirsi sempre fuori posto.