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Sono andato a vedere Paul Kalkbrenner al Red Valley

Red Valley, un Cagliari-Olbia andata e ritorno, gli Articolo 31 e soprattutto Paul Kalkbrenner.

(Pezzo lungo ma ne vale la pena)

15 agosto, una promessa rispettata: andare al Red Valley. Laura e lo staff sono gentilissimi nonostante la mia richiesta in extremis. Laura mi risponde nei giorni caldi, dopo qualche secondo, su whatsapp: c’è altro da aggiungere sulla sua professionalità e disponibilità?

“Purtroppo” le mie serate da dj mi negano spesso il piacere di godermi, senza l’ansia della consolle, tanti appuntamenti ed eventi musicali.

Parto alle quattro e mezzo. La 131 è lunga e arsa dal sole. Ho tempo per un caffè all’oasi di Sant’Ignazio dopo Sardara, poi proseguo la salita continua verso Olbia.

Arrivo in serata, il traffico è scorrevole tranne qualche rallentamento: le navi sono in partenza, il sole è andato via creando una tavolozza di colori in lontananza. Da lontano, appare il palco del Red Valley con la sua sagoma imponente: ecco la direzione!

L’area industriale, dove si svolge il festival, è vasta, piena di spazio e parcheggi. Scelta azzeccata. Faccio una pausa a un bar caffe di un distributore di benzina in una strada chiusa. Per loro questi giorni sono un eldorado: posizione strategica, tantissima gente di passaggio ma nessuno strozzinaggio. I caffè vengono 1,10, la birra, buona e fresca, 3,50 euro. Onesti. Il bagno, a pagamento (sarebbe anche giusto) è pulito.

Cinque minuti di camminata e sono già agli ingressi. L’accesso vip/media sta dalla parte opposta a quello normale, dove si sviluppa una lunghissima e ordinata fila. Si sente già l’EDM dell’esibizione di Vlady. Il vocalist incita la folla che risponde in preda alla crescente emozione per l’evento. Decine di persone guardano l’evento da una rampa stradale.

L’area vip si riempie alla spicciolata. Le parlate che incrocio sono tante: milanese, toscano, gallurese, inglese e tedesco. I look vanno dalla camicia bianca o a righe marcata alla più classica t-shirt. Sui tavoli arrivano di continuo bottiglie con cestelli illuminati.

I divanetti sono marcati e son situati nella pedana più bassa. Sopra il banco bar ruotano delle piccole discoball.

Tutto è organizzato perfettamente e anche scendendo tra la folla e godendosi l’evento “dal basso” il Red Valley non lascia spazio ad allestimenti precari e raccapezzati: tutto è brandizzato, chiaro e senza troppa fila. Cibo e acqua, food, birra e cocktail. Mi chiedo se siamo davvero in Sardegna dove il confine tra (tanti) eventi e sagre – con tutto rispetto – è sempre labile. Dove la musica quasi mai è centrale ma viene riempita di inutili orpelli.

Tananai indossa una camicia bianca che dura il tempo di una prima sudata: poi è una canotta nera, volto rassicurante e sorriso da bravo ragazzo. I telefonini si accendono e spengono. I genitori accompagnano i figli provando a cantare le canzoni.

Il giovane cantante dialoga col pubblico. Chiede a tutti di non affidarsi a guru o esempi. Racconta di sè e di canzoni nate durante periodi bui, nelle cantine. Chiude con Tango, dedicata a una coppia ucraina divisa dalla guerra, e la voce del pubblico lo accompagna.

Negli intervalli la musica accompagna il veloce movimento delle maestranze che a tempo di record fanno i cambi palco. Red è la scritta che domina, che sia l’evoluzione del marchio? La line up rispetta quasi puntualmente gli orari. Non è mai scontato che accada.

Quando entrano gli Articolo 31 le generazioni si danno una mano. “Un urlo per l’articolo31” con l’urletto di Jad. Poi Funkytarro, Gente che spera, 2023. “Voglio parlare con la musica” dice J-Ax, ma in verità parlerà anche senza. Volume, Italiano Medio, Domani smetto, La mia ragazza Mena, Domani, Spirale ovale.

J-Ax, accompagnato anche da Space One che supporta la voce, racconta le critiche: “Contro di noi c’è sempre discriminazione. In passato perché eravamo ignoranti di periferia, oggi perché io e Jad abbiamo i 107 anni insieme. È ageism, spiega, “dicono che dovresti smetterla di comportarti da ragazzino e vestirti da animatore. In verità siamo orgogliosi di quello che siamo stati e che siamo e promettiamo di non diventare mai dei vecchi tristi come quelli che ci criticano. Noi siamo un classico, voi dei vecchi di merda”. Applausi. Immancabile capitolo mariujana: “Come nel 1994 continuiamo a dire che su certe cose la gente abbia diritto di decidere”. La sfida: facciamo un Coffee shop a Olbia. Arriva così Ohi Maria e Maria salvador. Poi ancora “Disco paradise” con un altro filo polemico: “A volte ci dicono falliti o in questo caso venduti. Quando chi chiamano venduti significa che abbiamo un pezzo in classifica. Per seguire gli Articolo non ci vuole età ma mentalità”. Dito puntato al cervello.

Nel privè i bimbi scorrazzano, i grandi fanno selfie e video, le donne salgono sui divanetti per ballare. Elodie dopo gli Articolo 31 fatica ad aver lo stesso contatto col pubblico. Normale. La sua band è internazionale, le coriste supportano egregiamente, i pezzi cominciano a essere tanti ma la sua presenza sul palco, nonostante la bellezza e la grazia, un abito nero che lascia molto spazio all’immaginazione, concede solo qualche fiammata. Anche lei lo ammette nei saluti finali “Grazie. Avevo paura perché siete davvero tanti”.

Poi arriva lui, l’ospite che attendevo. Paul Kalkbrenner.

Il palco si fa minimale: via batteria, piano, microfoni e chitarre, resta una consolle e sua strumentazione davanti. Non ci sono piatti o cdj.

L’artista tedesco suona senza compromessi, effetti speciali o vocalist, lavora sul mixer e computer intensamente, gioca con le frequenze in maniera quasi ansiogena.

Suono diretto, techno di matrice tedesca, con lunghi inframezzi che anticipano la potenza del kick e del basso. Cominciano viaggi sonori senza tregua. Partenze e arrivi. Ci sono le più “conosciute” No goodbye, Sky and Sand, La Mezcla, Jestrupp.

I video sui grandi schermi diventano in bianco e nero per dare un effetto più residuale, lo riprendono sul viso con la sua alchimia scenica e vanno a scrutare le sue mani. Felpa nera laccetti bianchi, si accende diverse sigarette e beve, guarda il cielo in perfetta connessione col suono.

La luce pulsante segue il ritmo, il suono crea un’atmosfera di continua anticipazione. Man mano che il ritmo si sviluppa, la gente – la techno, inutile dire, non è un genere di massa in Italia, figuriamoci in Sardegna – inizia a sentirsi a suo agio, lasciandosi trasportare dai pulsanti beat non certo simili a quelli sentiti fino a mezz’ora fa. Le percussioni ipnotiche e i bassi profondi si fondono con melodie roteanti e intricate, creando un’esperienza sonora coinvolgente.

Kalkbrenner alterna in oltre un’ora e mezzo momenti di tensione ed energia a pause emotive, permettendo al pubblico del Red Valley di vivere un caleidoscopio completo di emozioni. Strati sonori e transizioni fluide e lunghe tra i brani nascono, come dicevo, dal suo controllo sulle attrezzature per manipolare i suoni, aggiungendo effetti audio e modulazioni che intensificano l’esperienza.

Quando il set si avvicina alla conclusione, il tedesco regala al pubblico una traccia finale, la storica Aaron, che unisce tutti gli elementi chiave del suo stile musicale.

La commistione tra pop e techno merita un elogio per il Red Valley. Riuscire a portare un artista come PK e buttarlo nella mischia alza l’asticella del festival che, come mi ha raccontato Laura tempo fa, vuol essere un contenitore di sfaccettature musicali.Senza nulla togliere agli altri, in particolare ai grandi Black Eyed Peas, il vero colpo è stato lui.

Abbiamo assistito all’audace connubio di generi che solleva il livello artistico, talvolta sfidando i preconcetti con qualche rischio coraggioso. E se taluni, specialmente i giovani, si interrogheranno sulla presenza di Kalkbrenner al Red Valley, già il semplice fatto di esporre e sentire il suo nome potrà innescare una curiosità che porterà gli ascoltatori a esplorare le sue playlist o a godersi le sue performance dal vivo (e i generi musicali affini). È un atto di semina, un’opportunità per arricchire l’esperienza musicale di chiunque.

Quando torno a casa, i pensieri mi avvolgono in quelle tre orette di strada statale. Dopo quasi centocinquanta chilometri, passato l’oristanese, finalmente incrocio un bar per far colazione. Un’oasi nel deserto. Nel cappuccino caldo ci sono ancora energia e briciole di musica del Red Valley. La musica, quel mistero magico, un linguaggio universale scolpito nell’etere, che parla direttamente alle emozioni, superando le barriere della parola e connettendoci in ogni momento. La musica, finalmente al centro.

Nick Tixi all’Ogopogo Festival!

Tixi all’Ogopogo Summer Festival.

Mancano pochi giorni al Festival Evento novità dell’estate in Sardegna: Ogopogo Summer Festival è in arrivo il 7, 8 e 9 luglio a Cagliari nello spazio Fiera.

Tantissimi gli ospiti nazionali e internazionali nella line up dei tre giorni: Purple Disco Machine, Hugel, Coez, Coma Cose, Luchè, Klingande, Mara Sattei, Pino d’Angiò.

Nick Tixi aprirà il dj set di Klingande sabato 7 e chiuderà quello di Hugel domenica 8.

Vi aspetto in Fiera!

Info e prevendite: www.ogopogosummerfestival.it

Bacan, il primo disco di Nick Tixi il 6 luglio su Spotify e tutti gli store musicali

Todo se cumple! È ora di partire per un nuovo viaggio musicale: Bacàn, il mio primo disco, sarà disponibile su Spotify – e a seguire su tutte le piattaforme – il 6 luglio prossimo!

Genere melodic house, è un omaggio a un percorso artistico e musicale che ho fatto in questi anni ma anche a un luogo, qui in Sardegna, dove ho potuto esprimere completamente, come DJ, quanto maturava già da tempo.

Potete fare il pre-save al link https://distrokid.com/hyperfollow/nicktixi/bacn

DJset, Michela Murgia e tempo che passa

Finisco il mio djset e mi godo le esibizioni degli altri dj e poi ancora degli ospiti.
Carico di adrenalina post prestazione, senza un briciolo di stanchezza nonostante tre giorni in giro, vago per la spiaggia alla ricerca di un punto di gravità permanente. Saluto amiche e amici che non vedevo da anni, curioso tra i volti della gente dall’altra parte della barricata, dopo averli ammirati dalla consolle.
Ringrazio Simonluca, poi Steve Sax e poi Alex the voice. Parlo con Guax di musica dance e Sandrone Murru che mi racconta della sua second life spagnola. E ancora tanti altri amici di consolle che abbraccio, Max, Fabrizio, l’altro Max, Roby, Gianfry. Appare anche Gianni insieme a Vale, poi Garghy e Deca. Sono stanco e non riesco a elencarli tutti.
In consolle sale ora Cristian Marchi. Il sole sta per andar via. Devo a tanti suoi pezzi la mia fortuna da dj. Gli sono grato ancora.
Poi mi allontano, prendo una sedia lasciata vuota, mi metto a guardare il mare. La bandiera è rossa, niente bagni anche perché il vento si è rinfrescato. Poggio lo zaino pieno di roba del viaggio e finisco il mojito.
Ripenso alla vicenda di Michela Murgia che ho appreso con dolore dal giornale, e tutto d’un tratto la leggerezza della musica diventa introspezione e pensiero.
Come si vive sapendo di avere delle grosse possibilità di morire a breve? Quali i pensieri, quali le sensazioni? Ci avete mai pensato? Può accadere a tutti. Forse è per quello che oggi più di ieri e di domani conta godersi solo il presente senza progettare e perdere tempo. Tagliando e sistemando, minimizzando i lamenti e facendo leva sulla volontà personale.

Mi sto aggrappando alla musica e alla scrittura. Lo vedo come atto d’amore verso gli altri. Come l’amore che davvero Ale ha saputo dare fino a quel giorno terribile. Anche la sua parabola aiuta a capire quanto siamo di passaggio e quanto tutto si risolva anche in pochi attimi. A nulla vale prendersela per cose che non resteranno.
La meditazione mi ha insegnato approcci nuovi.
Forse non ho costruito nulla, e se lo pensate avete ragione, ma sono certo di aver provato sempre a vivere come mi piace. Di essermi sbattuto per avere sempre più coerenza tra parole e azioni. E di imparare ad allontanarmi da chi ama mettere i puntini sulle i.
Se siete nel dubbio, non fatevi mai incravattare da un’esistenza che non volete. Mai.

Chilometri di strada, una festa da Dj e Murakami

Torno a casa dopo due giorni in giro per la Sardegna e ho il tempo di recuperarmi la consolle e andare a una bella festa di facce sorridenti. Sì, di quelle dove il ballo vien da sè come normale rito collettivo e liturgico.
Quando rientro, più o meno le tre, c’e Norwegian Wood che a far compagnia alla mia stanchezza accumulata.
Prometto di leggermi le ultime cinquanta pagine e prendo un grande respiro. Mi tuffo!
La scrittura di Murakami riesce a tenerti vivo fino a tardi.

Norwegian wood

Norwegian wood è un romanzo profondo e introspettivo. Un lungo flashback che ripercorre l’adolescenza del protagonista, Toru Watanabe che vive a Tokyo in un collegio universitario.
È andato via di casa per ricominciare una nuova vita, lontana da un passato ingombrante. Nella nuova città fa la conoscenza di personaggi bizzarri che gli apriranno nuove possibilità.
La sessualità viene trattata in modo piuttosto esplicito, coerente al contesto giapponese.
Eros e Thanatos, Amore e Morte. Scontro continuo. La morte è il filo conduttore,
collega tutti i personaggi e impregna la trama di toni malinconici.
A soli 17 anni il suo migliore amico si è tolto la vita. Toru prende così consapevolezza della morte, una consapevolezza che lo accompagna e che diventa il modo con cui trova l’amore.
Attraverso due ragazze: l’innocente Naoko, la tenerezza e la rinuncia, e la vivace e irriverente Midori.

La musica di Norwegian Wood

Non sei ma solo nella lettura: c’è sempre musica, con la presenza soprattutto dei Beatles e la lentezza ritmica della scrittura, le descrizioni accurate di Murakami che fa osservare da vicino le vite di tutti i personaggi.

Le domande di Murakami

Alla fine non ci sono certezze ma altre domande. Bisogna cogliere il tempo e saper scegliere.
“Cerca di pensare che la vita è una scatola di biscotti. […] Hai presente quelle scatole di latta con i biscotti assortiti? Ci sono sempre quelli che ti piacciono e quelli che no. Quando cominci a prendere subito tutti quelli buoni, poi rimangono solo quelli che non ti piacciono. È quello che penso sempre io nei momenti di crisi. Meglio che mi tolgo questi cattivi di mezzo, poi tutto andrà bene. Perciò la vita è una scatola di biscotti.“

DJSET al Bacan, a Cagliari

La bella stagione prende forma e la musica torna
In attesa degli altri ritrovi estivi, ci vediamo la domenica allo splendido Bacan (Marina di Sant’Elmo, Cagliari) per il mio djset “seguendo il sole” dal pomeriggio al tramonto.

Ho scelto per voi le migliori sonorità funk, melodic e organic house per accompagnare l’aperitivo in uno degli scorci più belli di Cagliari e della Sardegna.

Ingresso libero, il locale è aperto e accessibile tutti i giorni.

https://www.bacancagliari.com

Intelligenza emotiva di Daniel Goleman

Ho appena finito di leggere il libro di Goleman. Finalmente, dico, perché la prima volta avevo abbandonato le pagine dopo qualche minuto!

L’ho trovato uno strumento potentissimo per capire molte cose che sentiamo e viviamo, quando parliamo di controllo sulle nostre emozioni.

La parola intelligenza emotiva racconta una possibilità che non sfruttiamo: coltivare al meglio questa abilità, che non ha nulla a che vedere con l’intelligenza che conosciamo, per gestire le nostre emozioni in modo consapevole.

Le emozioni son importanti perché riguardano la nostra vita quotidiana. Esserne consapevoli è un vantaggio per gestire le nostre piccole e grandi crisi e scelte quotidiane

Come ho sempre pensato, e in periodo pandemico qualcuno mi ha pure deriso, i sentimenti contano tanto quanto il pensiero razionale, a volte anche di più. I sentimenti sono indispensabili nei processi decisionali: ci orientano nella (giusta) direzione, dove poi la pura logica si dimostrerà utilissima. Nei casi in cui le decisioni della vita si fanno complesse, gli insegnamenti emozionali che la vita stessa ci ha impartito inviano segnali che restringono il campo della decisione, facilitandola. In pratica, è come se avessimo (anzi abbiamo) due menti distinte: una razionale di consapevolezza e riflessione, e una emozionale, impulsiva e a volte illogica, ma molto potente, che esce fuori quando proviamo dei sentimenti. A noi spetta equilibrarle, senza permettere che l’una violenti l’altra. Di pura razionalità non si vive. E neanche di sole emozioni. Ma ci troviamo (ci siamo trovati) poveri di mente emozionale, consapevolezza, controllo di sentimenti negativi. Incapaci di conservare il nostro ottimismo, di avere perseveranza ed empatia e soprattutto avere attenzione e cura degli altri. E il lockdown ha fatto emergere tutta la nostra brutale incapacità.

Un consiglio? Non perdetevelo!

Un giorno a Petra, con l’incredibile storia dei Nabatei

Quasi tre ore di auto mi aspettano da Amman a Petra. Lascio la grande capitale di primo mattino, nel traffico chiassoso del lunedì, e via, per un’autostrada che taglia in due la Giordania.

Si aprono scenari rocciosi e desertici. Piccoli villaggi, stazioni di carburante, bar improvvisati con insegne scritte a mano, uomini che ti invitano il caffè con un curioso coperchio e l’indicazione a fermarsi – all’inizio pensavo fosse solo per trovar parcheggino – officine che puliscono e cambiano gomme, persone sedute al bordo strada a guardare chi passa, distanze immense in cui spuntano spicchi di vita quotidiana, il volto puro della Giordania e del Medioriente, quello che più amo! Questa è una strada importante che conduce anche i pellegrini alla Mecca.

A metà tragitto, ci fermiamo in uno dei pochi autogrill che si trova nella zona di Karak. Amjad me lo suggerisce dicendo che qui c’è un buon caffè, un negozio per qualche ricordo e i bagni sono puliti. All’ingresso delle toilette – tra l’altro tutte col doccino! – è buona regola lasciare una piccola offerta.

Compro qualche souvenir e il keffiyeh, il copricapo tipico bianco e rosso, il suo colore in Giordania – che chiedo di sistemarmi a un ragazzo che lavora nel negozio. Mi spiega come funzioni e con lentezza lo dispone sulla mi testa arrotolandolo e sistemandolo bene. Che strano vedermi così, e anche sentirmi addosso un loro capo mi fa sentire ancora di più parte di questa comunità!

Il sorriso non manca mai e anche un caffè rigorosamente turco: ne farò incetta col suo gusto sabbioso e lungo che resta nel palato.

Quando lascio l’autostrada – non si paga pedaggio, l’asfalto è ottimo e ci sono vari controlli della polizia – le montagne si avvicinano. La salita comincia e dura almeno un’ora. Qualche godibilissima curva, qualche villaggio sperduto e la prima vista, da lontano, di Petra, che lascia senza fiato.

Arrivo a Petra!

Eccola, spettacolare! Come se fosse un mondo a sè, una creatura inserita in una scena già meravigliosa, tra ripide gole e montagne, in un luogo isolato e arido, tutto fatto di roccia e pietra (avrete tutti notato l’assonanza!). Un luogo che, basta pensarci, ha permesso che questa civiltà si preservasse ed è poi diventata, nel 1985, patrimonio mondiale dell’Unesco.

Vivere Petra è ben diverso dal guardarla su video o in foto. Superata la fila dei cancelli, mi tocca una prima camminata su uno sterrato aperto, che ancora non fa trapelare nulla se non alcune rocce erose e lavorate dal vento e dall’uomo.

Poi, superata qualche curva, inizia il Siq. Il nome arabo significa “la gola”, è un tragitto lungo uqai 2 chilometri, serpeggiando a destra e a sinistra, che si allarga e restringe. Un anfratto con pareti altissime che, a tratti, impediscono quasi di vedere il cielo!

Un po’ di storia con i Nabatei

Qui passavano le carovane dei mercanti che hanno lasciato iscrizioni, rilievi, piccoli buchi scavati dove venivano posti i simulacri delle divinità e al pavimento le offerte. Sui lati scorrono dei canali per portare l’acqua nel centro della città. E allora non posso che scoprire, grazie anche al racconto di Amjad, la meravigliosa storia dei Nabatei, un popolo di origine araba e nomade che non avevo mai sentito nominare a scuola. Al secondo secolo a.C. erano ormai sedentari e organizzati in una monarchia florida.

La loro capitale divenne Petra e i loro territori si estendevano in una regione a Sud del Mar Morto ed a Est della Giudea. Petra divenne una città abitata da circa 30mila persone e importantissima a livello commerciale. I Nabatei erano dei mercanti e aprendo la cartina geografica – ogni tanto fa bene capire dove sono! – scopro che la posizione del sito non è casuale: è tra Oriente e Occidente e permette di collegare i mercati dell’Egitto con quelli della Siria. Una posizione difficile da attaccare e facile da controllare da chi la abita. C’erano da difendere tesori come l’incenso, la mirra, le spezie, prodotti richiesti e costosi. C’era da difendere l’incolumità di quella città.

Amjad mi racconta che c’è ancora tanto da sapere e da scoprire su Petra ma il fascino e l’ammirazione per i prodigi e le architetture scavate nella pietra arenaria di colore rosa sono già tanti.

Non vi ho raccontato che questi anfratti sono anche e soprattutto abitazioni e tombe alte fino a 30 metri. Anche qui c’era la differenza di caste: le migliori per dimensione e cura dei particolari erano di chi rivestiva ruoli più importanti, le altre dei cittadini semplici.

Petra riuscì così a prosperare grazie all’abilità dei suoi abitanti, diventò una delle città più ricche al mondo durante l’antichità almeno fino all’arrivo di Roma che ne decretò il controllo.

Eppure i Nabatei non si diedero per vinti e ripresero le redini. Con la politica condotta da un sovrano di nome Areta IV, arrivano a controllare anche Damasco, in Siria, e una regione parte dell’odierno Libano. E solo più avanti tra il 9 a.C. e il 40 d.C. riuscirono a svincolarsi dal controllo di Roma e ottenere che il loro regno venisse riconosciuto.

Il tesoro, la meraviglia!

In questo periodo, venne scavata nella roccia la tomba monumentale che ancora oggi tutti associano a Petra, il El Khasneh (Il tesoro). Forse la ricordate per un film che si chiama Indiana Jones? Ebbene sì, è quella, è l’architettura di Petra più fotografata, ha circa 2000 anni e oggi è considerata una delle opere più note al mondo. Alta 40 metri e larga circa 25, la leggenda narra nascondesse – magari anche oggi? – un immenso tesoro mai trovato.

Petra conobbe poi il declino e il controllo romano con Traiano: i segni si vedono ancora. Il regno dei Nabatei divenne provincia, la capitale venne spostata a Bosra e i romani costruirono edifici, anche di notevole pregio artistico, infrastrutture e strade.

Una camminata faticosa ma bellissima

Tornando ai giorni nostri, il sito è esteso con un po’ di fatica basta una giornata (ma se non siete allenati lasciate proprio perdere e prendetevi più tempo).

Ci vogliono buone scarpe e forza d’animo sia per le distanze sia perchè ci sono impervie salite e scale, come quella per arrivare al Monastero una colossale facciata di quasi 50 metri di altezze larghezza. C’è anche un bar proprio di fronte, ma non mi fermo subito: scopro un bel panorama con pochi minuti di cammino. Uno scenario che domina sulla Terra Santa, incuriosito dal cartello “Vista alla fine del mondo!”, che, per la verità, mi aveva fatto pensare a un pacco. E invece…!

Ma Petra è anche altro. Passo davanti a tanti siti monumentali, il Tempio, il Teatro, la Tomba del Palazzo e tanto altro ancora. Incrocio curiosi bazar che diventano gallerie coperte, bancarelle che vendono tappeti, collane, incensi, souvenir, teli, statuette, bar e piccoli rifugi per rifocillarvi con un panino kebab, un caffè, un tè e una bottiglia d’acqua ma anche qualche beduino che dall’alto mi osserva curioso mentre faccio una foto. Sono ammaliato dai profumi di incenso e dal calore di piccoli bracieri dove i mercanti si riscaldano e tante piccole situazioni belle e inattese, dialoghi, saluti, sorrisi.

I beduini chiedo una piccola offerta se volete un passaggio in asino o con un piccolo mezzo elettrico. Se vi fa piacere, se ne avete bisogno, accettate contrattando (3-5 dinari) o dando una piccola offerta, altrimenti un sorriso e un no, thanks e andate per la vostra strada.

Io son sempre in difficoltà a contrattare ma superata la paura è tutto divertente e normale! Tanti beduini, mi racconta Amjad, si guadagnano la giornata così e il covid, che ha chiuso la Giordania al turismo, ha ridotto in povertà tanti, non dimentichiamolo mai!

Petra affascina e anche se dovrete condividerla con turisti non troppo educati e rumorosi (indovinate di quale nazionalità soprattutto?), vale la pena! Ci son tante leggende e curiosità in questo mondo così lontano e pieno di mistero. Una storia che non conoscevo. Una storia in movimento visto che il sito nasconde altri tesori che emergeranno dagli scavi.

Note da viaggiatore

  • Ci son tanti alberghi dove soggiornare a Petra. Una notte è necessaria per godervi davvero l’esperienza.
  • Potete godervi la suggestione di Petra illuminata con Petra by night, un evento alcuni giorni la settimana che prevede l’apertura serale e notturna
  • Ricordatevi che per entrare a Petra ci vuole il Jordan Pass un pacchetto turistico pensato ad hoc per i visitatori della Giordania che vi facilita l’ingresso nei siti (ecco il sito ufficiale https://www.jordanpass.jo)

Amman e il viaggio in Giordania

Le atmosfere del mio ultimo viaggio tra Slovenia e Croazia  sono un ricordo lontano. Quando lascio il caos di Roma e salgo sull’aereo che da Ciampino mi porta ad Amman, qualcosa di magico sta per ritornare: il mondo mediorientale, che ho avuto la fortuna di scoprire in Libano e che ora ritrovo qui in Giordania.

La Giordania era sulla mia lista da molto tempo, ma avevo bisogno di coraggio per prendere il volo e andare oltre le mie destinazioni abituali.

Mi viene a prendere all’aeroporto la mia guida, Amjad. Il tragitto di mezzora mi permette di conoscere qualcosa in più delle mie poche informazioni sulla Giordani. Amjad, stuzzicato da me, racconta la speranza e il sogno di un popolo che vuole crescere aperto al mondo senza perdere le proprie radici. Parliamo di politica, tradizioni, curiosità, confini, cibo e storia.

Lui ha vissuto a Torino per molti anni, ama l’Italia e tifa – purtroppo – per la Juventus. Tra scherzi e riflessioni, mi piace sapere com’è la vita in Giordania, sul come abbiano affrontato le scosse sismiche che hanno comunque toccato paesi vicini, e sulla situazione delle migrazioni vista la sua posizione geografica.

Intanto le case in marmo bianco si diffondono in campi giallognoli, e capisco che la città sta ancora crescendo e espandendosi. Quando il profilo di Amman, fatto di colline e alture, appare all’orizzonte, inizio ad avere idea della sua grandezza.

L’autostrada strada è larga e le auto procedono veloci. Ogni tanto passiamo un ponte con le bandiere nazionali che sventolano mosse da un leggero filo di vento.

Continuiamo a discutere di libertà e lui mi racconta come la Giordania, con i suoi 10 milioni di abitanti, ospiti ben 2 milioni di rifugiati palestinesi e circa la metà della popolazione ha origini palestinesi. Nonostante sia un paese piccolo, desertico e relativamente povero, con solo una piccola parte del territorio coltivabile, la Giordania ha sempre aperto le sue porte ai rifugiati provenienti da paesi vicini coinvolti in conflitti, come Palestina, Iraq e più recentemente Siria.

Quando finalmente siamo in città, mi immergo subito in questa eccezionale atmosfera, circondato da antichi resti di civiltà che sopravvivono e lasciano il loro segno nell’essenza stessa del regno e nell’anima della gente.

Il centro vero e proprio di Amman – la Downtown – è a 9 chilometri dal mio albergo, che sta nella parte nuova, avveniristica e ricca di edifici ultramoderni, hotel, ristoranti eleganti, gallerie d’arte e boutique. Tuttavia, decido di andare per capire se quella città descritta da Amjad come un ponte straordinario tra i continenti europeo, asiatico e africano, che nasce tra il deserto e la fertile Valle del Giordano sia quella che troverò.

Il traffico è intenso e ho l’opportunità di conversare con il mio tassista di Uber, un inglese che ha sposato una donna giordana. Uber qui permette di spostarsi evitando quello che io detesto: la contrattazione con i tassisti. Dovrò migliorarmi però.

La sua parlata è lenta e cordiale. Durante il tragitto verso il centro, mi offre una caramella e inizia a raccontarmi cosa troverò.

Quando arrivo, la città ha i colori del tramonto. Scendo dall’auto e vengo travolto dalla folla, dal caos, dall’anarchia fatta di insegne in arabo, negozi di ogni genere, fumo, gente che cammina, scatole, furgoni, autobus che cercano di farsi strada, grida, muezzin che pregano dagli altoparlanti delle moschee, merci , edifici in pietra che si ergono verso il cielo e stretti vicoli che si snodano tra le case. Ci sono pochi turisti. I caffè nascosti lasciano spazio alle piccole botteghe degli artigiani e venditori ambulanti.

Il mercato centrale di Amman, che non capisco dove inizi e dove finisca, è un’esperienza emozionante, che mi fa sentire parte della vita locale, tra le voci dei contrattanti, le donne in abiti tradizionali che scelgono con cura la frutta, i profumi di spezie e di carne arrosto, i gioielli, i tessuti e le ceramiche.

Non c’è da aver paura: l’atmosfera è caotica e affascinante, e ti senti subito a casa. Gruppi di anziani che giocano a carte, venditori di caldarroste fumanti e gesti e sorrisi, uniti alla conoscenza dell’inglese, ti fanno sentire accettato e risolvono qualsiasi distanza. Attraversare la strada può essere un po’ complicato a causa della mancanza di strisce pedonali, ma ci riesco!

Passeggiando lungo Rainbow Street e girando per i vicoli, scopro nuovi scorci e momenti di pace inaspettati. Una musica araba prende il sopravvento e mi sforzo di capire da dove provenga. Vedo che tutti mangiano una sorta di dolce. Chiedo a un signore di mezza età come si chiami e scopro il nome:il kunefe! Viene venduto in una piccola sala a cui si accede con una fila. È un dolce a base di pasta fillo e formaggio e delizioso! Riesco anche a infilarmi in un bar per prendere un sabbioso caffè turco.

Man mano che si avvicina l’ora di cena, i colori della Downtown cambiano. La gente freme al banchetto per gustare il mansaf, un piatto a base di riso e agnello, servito con una salsa di yogurt, e il shawarma, un sandwich con carne di pollo o manzo e verdure all’interno di una piadina calda.

L’aria si riempie del fumo dei contenitori di tè alla menta, che viene servito ovunque, dai ristoranti ai caffè, e del sahlab, una bevanda calda a base di latte, amido e spezie. Ci sono anche negozi che vendono succo di frutta fresca, spesso fatto con frutti come melograno, mela e carota. Un uomo cerca di vendere biglietti della lotteria, mentre un altro vende degli allunga-scarpe disposti su una scatola di detersivi. Un anziano signore ripara abiti con la sua macchina da cucire in mezzo al marciapiede. Le immagini della famiglia reale sono ovunque, e in qualche bancarella vedo foto di Saddam Hussein e bandiere dell’Argentina. Tre uomini scaricano velocemente un furgone mentre una macchina cerca di farsi strada tra le scatole troppo vicine. Un banchetto dispone dolciumi colorati per la felicità dei bambini curiosi. Poi c’è l’Anfiteatro, a cui si accede liberamente, un monumento spettacolare e ben curato che fa da cornice a una partita improvvisata divertente tra ragazzi ben vestiti per la domenica.

Quando decido di tornare in albergo, sento che Amman mi ha già accolto con un delizioso tè, con il malinconico canto del muezzin, e con la sensazione di vita e umanità che solo il sud del mondo può darmi. La gente è gentile e semplice.

Amman è una città giovane e fresca, che rappresenta una nazione in pace che accoglie i rifugiati dei paesi vicini, una nazione in cui nessuno ti disturba se non per un sorriso e per rispondere al tuo “Salam”.

 

 

Tre giorni a Zagabria!

“Vai a perderti”. E’ un po’ la frase che guida i miei viaggi. Poche certezze, niente mappa, unico riferimento è dove alloggio. Poi magari cerco informazioni dopo esser stato nei luoghi dove capito o scatto foto e allora è un wow. 

Il mondo balcanico mi intriga sempre di più, ve l’ho detto! E ho messo un’altra bandierina – dopo Lubiana e Belgrado – a Zagabria, città interessante, specie nei periodi dove le orde turistiche son lontane e ti senti, quasi, l’unico viaggiatore!

Da Lubiana ho preso per unica possibilità un transfert non troppo economico – pensavo a un minibus è arrivato un Mercedes da star  edopo ben tre ore di autostrada perfetta e paesaggio innevato eccomi a Zagabria.

Purtroppo, va detto, i collegamenti nella ex Jugoslavia non sono perfetti: non c’è una sviluppata e diffusa rete del treno che tocchi tutte le città e ci si affida perciò a bus e auto. 

L’auto mi lascia all’ingresso della città, all’Hotel Antunovic, quartiere Precko. Mi basta poco per capire che sono lontanissimo dal centro. Casermoni alti e palazzi lineari sono il primo assaggio di Zagabria, con piccoli negozi di vicinato, una panetteria, un bar, un fruttivendolo e gente che frequenta un parco verdissimo.

Cerco subito i miei punti di riferimento: la linea dei bus o dei tram e un posto per fare i biglietti. La signora dei tabacchi accetta carte. Per fortuna! Mi ricordo che da pochissimo la Croazia è dentro l’euro (la doppia circolazione è finita il 14 gennaio) e non è per nulla scontato che lo facciano tutti (troverò anche chi non le accetterà!).

Il tram è il 17, cinquanta minuti per raggiungere il centro. Questa immersione nella vita normale di città, fuori dai percorsi centrali, mi piace assai: studenti, signore con una pesantissima spesa appena fatta, uomini dall’aria di docenti universitari, donne con bimbi di rientro che hanno ancora i giochi in mano, giovani attaccati al telefonino e immancabili tute firmate. C’è tanta umanità mentre la città scorre e i palazzi incolori della periferie si fanno vetrine e poi eleganti costruzioni.

ARRIVO AL CENTRO!

Quando tocco il centro leggo in uno dei cartelli Ilica Street (una via lunga quasi 6 km), luogo di shopping con marche costose e altri brand conosciuti. Sarà il mio punto di riferimento anche se ci bazzicherò poco o nulla. Ma quando si viaggia i punti di riferimento sono pochi, per poi andare liberi e casuali.

Decido di scendere in una fermata che mi ispira e affidarmi al flusso della gente. In pochi minuti incrocio la prima grande piazza, Ban Jelačić,  snodo di varie linee del tram e riservata ai pedoni. Immagino sia un luogo di ritrovo per eventi e concerti, con edifici e case in una certa varietà di stili architettonici, dal Biedermeier all’Art Nouinveau e al Postmodernismo.  Le persone qui si incontrano, c’è un’atmosfera vibrante e piena di vita, sotto l’orologio, e presso la coda di cavallo – un’allusione alla grande statua di Ban Josip Jelačić su un cavallo che ha posto al centro della piazza.

Il mio alloggio è a un chilometro dal centro, lascio tutto dopo un veloce check in  – la stanza è comoda e ha una finestra con vista sulla città – e così comincia la prima esplorazione ancora eccitato dall’arrivo. Punto alla chiesa più alta, camminando nella sua direzione. Leggo che è l’edificio più alto della Croazia, la Cattedrale e domina su sul quartiere storico di Gornji Grad. Questo quartiere, che sarà il mio luogo centrale, ha strade fatte di ciottoli e antiche case con tegole rosse.

SORPRESA… IL MUSEO DELLE RELAZIONI INTERROTTE

Poca gente in giro, anche se son le cinque – l’aria sussurra già voglia di cenare! –  i caffè si riempiono e qualcuno si affretta a fare gli ultimi acquisti. Trovo una scalinata e decido di percorrerla, e mi trovo, quasi casualmente nella chiesa di San Marco con un suo elaborato tetto di tegole. Che particolare! Il suo tetto rappresenta le armi del Regno Tripartito (Croazia, Dalmazia e Slavonia) e della città di Zagabria. Trovare pertugi anonimi che aprono nuovi scorci di città è uno dei miei segreti di viaggio e anche Zagabria riserva tanti segreti.
Proprio là vicino, una piccola sorpresa: il Museo delle Relazioni interrotte. Entro incuriosito  pensando che sia una fregatura, 5 euro di biglietto, p “chissà che cosa propinano questi ai turisti” e invece… Il museo è una bomba! Una esposizione di oggetti accompagnato da una storia ironica o triste che lo contestualizza, e spiega quale sia il suo significato, al di là di quello universale. Un paio di scarpe da ginnastica, una clessidra, un ciuffo di capelli, un dildo, un registratore C’è un vasetto di cetriolini acquistati da una ragazza per il suo primo amore, che però ha smesso di rispondere ai messaggi dopo due mesi insieme. E lei non ha mai avuto la possibilità di dargli quel barattolo. Amori perduti, amori non corrisposti ma anche amicizie profonde!

Il freddo si fa più forte e cerco un posto per cena, ancora emozionato da quel museo. In zona trova un ristorante old style, nel senso anni 80 del termine, che si chiama Purger. Il
personale parla poco o nulla l’inglese. Appena mi presento, la giovane ragazza che sta al bancone – un vecchio pezzo di acciaio con bottiglie datate – mi sorride ma risponde in croato. Ordino pollo con patate e una birra locale. Quando vado via sorridiamo insieme perchè comunque ci capiamo, nonostante tutto! Ed è questo bello: riuscire sempre a capire e sorriderci.

DAL MERCATO AL CENTRO STORICO

La mattina dopo comincio da Kaptol Square, il mercato Dolac con un cappuccino in un bar di quartiere affollato da anziani che fumano tranquillamente dentro (è concesso?) e parlano ad altissima voce. Nelle bancarelle le donne preparano la frutta con attenzione scientifica. Posizionano i cartelli e i prodotti più colorati davanti. Qui arrivano commercianti  da tutta la Croazia per vendere. Dolac sta tra la Città Alta e la Città Bassa. Oltre a questo mercato, più laterali ci sono bancarelle al coperto che vendono carne e latticini e, poco più avanti verso la piazza, fiori. In un’altra parte, bancarelle cariche di miele di produzione locale e bigiotteria artigianale si affiancano a chioschi dove si mangia spendendo poco.

Riprendo la rotta della cattedrale. Leggo che la chiesa è stata continuamente riparata per più di 20 anni e dovrebbe essere completata nei prossimi anni. Mi ricorda la storia della Sagrada famiglia di Barcellona e anche qui la struttura ha due torri simmetriche scolpite con un’altezza di oltre cento metri in architettura gotica. Vicino, c’è una zona molto bella e intima che è via Tkalciceva, fatta di case dai colori tenui in stile est europeo, sotto la strada piena di caffè e ristoranti. Proprio in uno di questi mi fermo per lavorare un po’ e bere un caffè e una birra, sfruttando anche il calduccio all’interno.

DENTRO IL TUNNEL

Lo stomaco chiede e allora vado a pranzo al Nocturno, sempre in zona. Insalata e pollo. Risalgo la città vecchia e voglio rivedere alla luce del sole tutto il panorama. Ripasso per la chiesa di San Marco, visito un vicino museo di arte naïf – pittori sconosciuti che raccontano la vita di campagna – e poi vado alla ricerca del tunnel Gric, una delle testimonianze della sanguinosa guerra di pochi decenni fa. In realtà venne costruito nel 1943 per permettere ai civili di ripararsi dalle bombe della Seconda guerra mondiale, e riutilizzato all’inizio degli anni Novanta per motivi analoghi. Curiosità è che le gallerie ospitarono dei rave, eventi musicali gratuiti e di solito autogestiti, frequentati da appassionati di musica techno. Queste serate diventarono parte della storia musicale locale, in particolare nel caso della prima del 1993. L’organizzatore dei rave fu Damir Cuculić, nativo di Zagabria e appassionato di musica disco e hip-hop. Negli anni Ottanta faceva il dj un primo rave e poi il 30 ottobre 1993 ne organizzò un altro nella sempre nel Tunnel Gric.

TRA CULTO E REVIVAL

Quasi per caso – il caso del viaggiatore! – nella mia camminata incrocio la Porta di pietra che conduce alla vecchia città di Gradec (Città Bassa). E’ un piccolo luogo suggestivo, un cancello che porta (o fa uscire) alla parte medievale. Una volta entrato, ci sono candele e iscrizioni, una piccola cappella. La storia dice che il fuoco del 1731 distrusse il cancello, ma quando il fuoco e il fumo si placarono, sembrava che l’unica cosa sopravvissuta fosse un dipinto della Vergine Maria con Gesù. Qui le persone restano per pregare, accendere candele e offrire ringraziamenti per le preghiere esaudite e le pareti della cappella sono coperte da messaggi di gratitudine.

A pochissimi passi si trova un altro must: il museo anni 80 di Zagabria. Come
tornare indietro nel tempo, entrando in un appartamento con arredi ed oggetti appartenuti a quegli anni. Non ci sono recinzioni, puoi toccare e usare tutto, dai dispositivi elettronici dell’epoca fino agli elettrodomestici. E allora poster, walkman, macchine per scrivere, libri, detersivi, conserve, libri, telefoni, stereo, tutto direttamente dalla ex Jugoslavia degli anni ’80. Potete pure indossare gli abiti! Oltre la nostalgia, la curiosità di un mondo che davvero ogni volta mi colpisce!

 

Senza entrare in dispute politiche (vi prego!), oltre il confine orientale ci sono paesi sempre interessanti e ricchi di fascino e mistero, con una storia diversa dal nostro. Le capitali dell’Est, con il loro mondo e le loro usanze, con piccole e grandi curiosità da conoscere. 

Quando vado via da Zagabria con il mio immancabile Flixbus che farà cinque ore per tornare a Trieste, so di aver lasciato un altro frammento di cuore in questa Europa, fatta da eredità architettonica di tipo sovietico, palazzi, silenzi, scritte illeggibili, gente cordiale e strade fredde solcate da vecchi e nuovi tram.

Il fascino dimesso dell’Est, ecco! Quelle domande “ma cosa vai a fare?”, “attenzione a non dare nell’occhio” e “ma c’è qualcosa da vedere?” che mi hanno creato ancora di più la curiosità. E la curiosità non ha ucciso il gatto, lo ha rinforzato!

Ogni posto sconosciuto merita di essere esplorato, ogni luogo dove è passata la storia – e che storia – ha qualcosa da dire. E si torna sempre più ricchi di prima.

Tre cose da mangiare 

Il Ćevapčići è un piatto a base di carne che deriva dal kebab, una polpettina cilindrica a base di carne di manzo e agnello, cotta alla piastra o sulla griglia. 

La Zagrabacki odrezak è il piatto tipico di Zagabria a base di carne. E’ una bistecca di vitello fatta di due fettine di carne, piena di prosciutto e formaggio, poi impanata e fritta.

Il palacinke (che deriva da un dolce ungherese), che è una specie di crepes che va gustata arrotolata e  farcita con cioccolato, panna o confettura.

Come spostarti

Zagabria i mezzi pubblici sono abbastanza efficienti e puntuali. I biglietti si fanno nei tabacchini. In generale, è una città che si gira tranquillamente a piedi. Non siate pigri!