Posts in Storie & Idee

Ho letto Fallire e vivere felici di Alain De Botton

Ho appena finito di leggere “Fallire e vivere felici” di Alain de Botton.
Il filosofo non mi è nuovo: ho già letto diverse sue opere come l’Arte di Viaggiare e Come Proust può salvarti la vita. Linguaggio facile, colloquiale, spunti capaci di colpire con la loro semplicità e profondità: De Botton è questo.

In un mondo che ci vuole sempre belli e vincenti, accettare il fallimento è un atto rivoluzionario. Soprattutto in quest’epoca, nella quale Internet e i social media rendono impossibile cancellare le tracce dei nostri errori. Ma è importante ricordare che nessuno attraversa la vita senza sbagliare, perché l’errore è tipico dell’essere umano e, prima o poi, tutti incappiamo in delusioni e cattive scelte. A volte gli sbagli finiscono davanti agli occhi di tutti, altre volte cerchiamo di nasconderli per vergogna.

Questo libro esamina i diversi ambiti in cui ognuno di noi sperimenta il fallimento, da quello sociale a quello sentimentale e lavorativo. Ci offre consigli pratici su come affrontare piccoli e grandi insuccessi, incoraggiandoci a trasformarli in occasioni di crescita personale, emotiva, relazionale e professionale. Ci insegna a provare empatia verso chi è sconfitto, partendo proprio da noi stessi. Perché non fallire mai è impossibile, ma si può imparare a fallire bene.

De Botton unisce, come al solito, psicologia e filosofia – questo aspetto mi affascina! – per esplorare le dinamiche dell’uomo senza reticenze, offrendo chiavi di lettura a chi desidera comprendere perché la gente odia, perché reagisce con tanta crudeltà sui social di fronte ai misfatti altrui, come se non riuscisse ad accettare che l’uomo sia imperfetto per natura. Perché non esiste pietà e compassione? Perché i migliori amici sono quelli che hanno sopportato le peggiori crisi e misfatti? Perché il fallimento è normale e non viviamo in corsa con nessuno, anche se ci fanno credere che essere perfetti sia davvero il segreto?

Emerge anche l’importanza dei traumi infantili, quei segni del passato che continuano a contare anche oggi, influenzando le nostre azioni e reazioni. De Botton ci invita a esplorare queste dinamiche senza timori, a riconoscere che la perfezione è un’illusione, e che è nell’accettazione dei nostri limiti che possiamo trovare una forma di serenità e autenticità.

Compio 28, sì ventotto, anni da DJ…

Compio 28 anni da DJ! Se ci penso dico solo: WOW
Oggi finalmente ho fatto l’iscrizione come artista in Siae, che purtroppo per alcuni problemi telematici avevo rimandato da mesi nonostante avessi già pubblicato tre singoli sulle varie piattaforme (qui su Spotify https://open.spotify.com/artist/4J06makpjkPBRGjUQc439R…)
Non mi posso lamentare nella mia vita da dj.
Ho le mie serate, metto la musica che mi piace, ho le mie consolle da resident e spesso mi riposo e declino per non “odiare” la professione. Una forma di tutela fisica e mentale. Quando si esagera la passione prende altre forme, diventa ossessione e lavoro “da ragioniere”. Allora cominci a odiarla e sentirla come peso.
Sento che l’obiettivo sarà sempre fare in modo che la mia musica vada oltre, non sia solo per i locali e per i party ma anche, come è già accaduto, in contesti nuovi e diversi, difficili e stimolanti, fondendo esperienze artistiche e trovando nuove sintesi.
Grazie ancora a chi mi ha seguito e supportato 🙂

La grande pala eolica sulla Statale 131

Oggi, viaggiando lungo la 131, vicino a Oristano, mi imbatto in qualcosa di inaspettato, considerato le centinaia di volte che ho fatto questo tratto.

Una grande pala eolica all’orizzonte, un elemento nuovo, che prima non c’era. Incuriosito, comincio a osservarla più attentamente. Man mano che mi avvicino, la sua imponenza diventa sempre più evidente.

È un colosso, un gigante di metallo che domina il paesaggio. E all’improvviso, una strana sensazione mi pervade: la paura. Quel gigante, con le sue eliche imponenti, mi dà l’impressione di una conquista, di una forza estranea che si impone sul territorio. È come se qualcosa di violento fosse stato introdotto in un paesaggio che conosco da sempre, alterando l’equilibrio naturale.

Non fraintendetemi, non voglio certo negare l’importanza dello sviluppo delle energie rinnovabili. Sappiamo tutti quanto sia cruciale per il futuro del nostro pianeta. Tuttavia, l’emozione che provo in questo momento è quella di una violenza inflitta al territorio, come se qualcosa di sacro fosse stato violato.

So che questa è una visione poetica, forse anche un po’ romantica, della realtà, che non esiste spazio per questi pensieri – eh, già – e mi scuso se non riesco a guardare oltre. Ma è proprio questa la sensazione che provo ora.

Penso a Heidegger, che descriveva la tecnologia come un modo in cui l’uomo si rapporta alla natura, spesso riducendola a una mera risorsa da sfruttare. Questa pala eolica, simbolo di progresso e di sostenibilità, appare ai miei occhi anche come un segno di quella stessa riduzione: il paesaggio diventa un luogo da colonizzare, da piegare alle esigenze umane, senza considerare la sua essenza.

Non ho una posizione definitiva su questo tema, sappiatelo.

Mi mancano ancora tanti elementi per poter esprimere un giudizio informato. Tuttavia, c’è un aspetto che non posso ignorare e che credo di conoscere, avendo fatto per tanti anni politica e lavorando nel campo della comunicazione politica: la politica in Sardegna.

La politica si dimostra sempre più inadeguata, incapace di gestire le sfide e le opportunità che il nostro territorio offre. E purtroppo, anche la comunità ha mostrato – se si esclude qualche bella esperienza – un disinteresse cronico per il proprio destino, lasciando che decisioni cruciali venissero prese senza una vera partecipazione popolare.

In Sardegna manca da sempre un dibattito pubblico reale e continuo, una coscienza civile diffusa. Troppo spesso, i politici si concentrano su questioni di corto respiro, e le persone seguono passivamente questa deriva preferendo il disinteresse totale o l’interesse personale (il voto di scambio, il favore, l’amicizia interessata). Questo mi preoccupa profondamente. Ho paura che, anche in questo caso, il dibattito sull’eolico finisca per cadere nel vuoto, che si tratti di un’altra occasione persa per la nostra isola.

Eppure, è proprio nei processi di sviluppo come questi che si aprono grandi possibilità, costruire un futuro sostenibile, rispettando al contempo la nostra terra e le sue tradizioni. Ma temo che, alla fine saranno in pochi a decidere, e le scelte saranno imposte dall’alto, senza un reale consenso popolare.

C’è qualcosa di ancora più preoccupante.

Mentre ci dibattiamo in piccole battaglie(il turista sporcaccione, le dichiarazioni di Briatore, il suv milanese sulla spiaggia, la bandiera dei quattro mori ai concerti ecc), e ci lasciamo distrarre da slogan vuoti e superficiali, una profonda ignoranza continua a mostrarsi. La scarsa consapevolezza delle reali necessità del territorio, unita a questa inerzia culturale, ci sta danneggiando.

I sardi, invece di combattere per cause superficiali o prestare attenzione a falsi miti, dovrebbero (ricominciare a) leggere, viaggiare, studiare, mettersi domande, comprendere le esigenze della nostra terra, a progredire e a evolversi invece di autoconvincersi di essere un popolo compiuto e unico, speciale e intoccabile.

Non ho soluzioni, sia chiaro.

Posso pensare che questo riscatto e progresso non può e deve venire (solo) dalla politica, ma deve partire da noi stessi, dalle nostre scelte personali, dalla nostra voglia di creare, di essere indipendenti e autonomi, senza aspettare nulla dal pubblico.

Il vero progresso nasce dalla volontà di riscatto individuale, dalla consapevolezza che solo con lo studio e con l’impegno possiamo costruire un futuro migliore per la nostra isola.

La grande pala eolica sulla Strada Statale 131 è solo un simbolo, un’immagine che racchiude molte delle contraddizioni della nostra terra. Ma è anche un monito: ci ricorda che, senza una coscienza civile forte e partecipativa, rischiamo di perdere il controllo sul nostro futuro. E questo è un rischio che non possiamo permetterci di correre.

Il rischio è, inoltre, che i mezzi si stiano trasformando in fini, scambiando lo sviluppo tecnico per progresso umano.

Il progresso, in fondo, non dovrebbe mai essere una conquista imposta dall’alto, ma un atto di armonia e consapevolezza, una scelta che nasce dal desiderio di migliorarsi e di riscattarsi, l’amore per la terra e per gli altri, un passo deciso verso un’autentica autonomia e non un’eterna infanzia.

Köln Concert, Keith Jarrett e serate storte

Da qualche giorno durante la mia doccia serale metto sempre The Köln Concert di Keith Jarrett.

Un concerto intenso, spontaneo e profondo, che abbraccia tanti generi e stili, che ogni volta rappresenta per me un aggancio ai ricordi del passsto ma anche una bella lezione esistenziale.

La storia molti la conoscono: gennaio 1975, un piovoso pomeriggio a Colonia, il, celebre pianista noto per il suo caratterino, era furioso. L’organizzatrice del concerto, Vera Brandes, giovane e inesperta, aveva preparato un pianoforte inadatto (Baby Grand) rispetto a quello richiesto (Imperial).

Nonostante il suo dolore alla schiena e il lungo viaggio da Zurigo, Jarrett minacciò di annullare lo spettacolo, ma fu persuaso dalla determinazione di Vera, promettendo di suonare “solo per te, non lo dimenticare mai.”

Vera, incapace di trovare un piano sostitutivo in tempo, si affrettò a far riparare il Baby Grand con l’aiuto di tecnici, mentre Jarrett tornava in albergo a riposare senza successo. Dopo una cena frettolosa, arrivò al teatro stanco e provato. Tuttavia, una volta sedutosi al pianoforte, la sua improvvisazione straordinaria prese vita, incantando i 1400 spettatori presenti.

Il concerto fu una performance inattesa e storica, caratterizzata da un mix magico di jazz, blues, folk e classico. Nessuno avrebbe immaginato che quella serata sarebbe diventata il concerto di pianoforte più famoso nella storia della musica moderna.”The Köln Concert,” la registrazione, vendette oltre quattro milioni di copie, fu l’album di pianoforte più venduto di sempre.

La lezione è l’aspetto meraviglioso che accompagna l’ascolto: a volte le difficoltà e le imperfezioni possono portare a risultati straordinari. L’arte spesso fiorisce in condizioni di pressione e che la determinazione e la flessibilità possono trasformare gli ostacoli in opportunità uniche.

A volte anche noi nella vita non abbiamo il pianoforte adatto e tutto sembra andare storto: ma se abbiamo qualcosa di bello da raccontare, se abbiamo qualcosa di unico dentro, è il momento di dimostrarlo.

Storie: Antonio Agabio, tra Cagliari e Usa con le startup dell’AI

Pubblicato sull’Unione Sarda del 28 dicembre 2024

Versione breve: è un imprenditore della tecnologia e della finanza. Versione estesa: da gennaio 2022 è presidente e amministratore di Ovum, una Start-up Factory, un’azienda che crea Start-up nel settore dell’intelligenza artificiale da zero, attrae investimenti e le lancia sul mercato. Nasce da un’intuizione di Linkalab, realtà sarda nel panorama nazionale, e di AB Innovation, consulting milanese di legal tech: “Siamo anche all’estero, specie in USA e UK, e da quest’anno in Spagna a partire dal prossimo MWC di Barcellona, il più grande evento al mondo di mobile”.

Il cammino di Antonio Agabio, 31 anni, comincia da un diploma all’Alberti nel 2010 e una triennale in Amministrazione e Organizzazione – “bel corso per multipotenziali”. Poi l’estero: studio e lavoro a Montréal in Canada e poi in Danimarca, specialistica in Studi Europei. Torna in Italia e viene assunto in una consulting locale e quindi entra nel campo tech, in Linkalab, prima di Ovum.

“Attiriamo quello che siamo”. Il suo non è un percorso chiaro dall’inizio, ma una serie di opportunità e sfide accolte con curiosità, voglia e passione: “Se nasci trottola, girare da una parte all’altra, anche nel lavoro, è destino”. Altro lato della medaglia, le difficoltà sulle quali sfoderare il meglio di sé: “Come raccontavo in Cattolica di Milano, serve una grande forza mentale e il team e le persone fanno la differenza tra il successo di un’iniziativa di questo tipo e il suo fallimento, in maniera uguale se non più dei tuoi sacrifici e competenze”.

In queste andate e ritorni vede Cagliari cambiare: “Dopo il Covid i prezzi sono schizzati più che a Milano. Abbiamo un futuro, il problema è che chi ci abita è sempre l’ultimo a trarne i frutti e il primo a soffrirne gli effetti”. Il lato positivo: “Attira sempre più opportunità e aumenta il decoro, l’offerta culturale e i turisti. In estate sembra di stare in una bella realtà della Costa Azzurra, manca solo il GP! Quanti dati potremmo raccogliere dalle telemetrie?”.

Eppure i giovani partono: “Menomale! Apprendi arti e mestieri, ti immergi in culture agli antipodi e apri la mente. ‘Perché non tornano?’ Chiedilo a un architetto di New York che lavora per 300mila dollari lordi annui, saprà risponderti”.

Poi ci sono quelli che restano, buone idee ma non trovano la propria dimensione. La ricetta di Antonio: “Prima cosa, convalida che sia davvero una buona idea. Tanti business falliscono perché si specchiano attorno alla passione o al talento dei loro ideatori, senza attrattività sul mercato. Se sai che il prodotto ha domanda, cerca finanziamenti tra Venture Capital interessati a startup in fase di ideazione”. Puoi farlo anche con base nell’isola? “Solo se trovi i finanziatori giusti all’inizio e viaggi per creare la rete di aziende partner e sostenitrici interessate al mondo Tech di frontiera”.

La sua base è Cagliari e la sardità la porta in giro. Oltre alla cadenza, è una sensazione. Essere sardo all’estero è diverso rispetto ad altre regioni: “L’anno scorso al CES di Las Vegas ho incrociato lo YouTuber sassarese Morethantech e sembrava che ci conoscessimo da una vita. Se riuscissimo ad essere così anche in patria…”.

Il dinamismo USA non vale il maestralino e la birra al Poetto: “Ho casa qui e passo più tempo possibile con amici e famiglia. Quella di mio papà ha aperto un’azienda prima ancora dell’unità d’Italia. Non andrei a vivere fuori, tolta la California per motivi personali e professionali. Anche Cagliari ha la sua centralità e i suoi primati: “Fun Fact: sapevi che, tra le altre, qui ci fu la primissima trasferta della cantante canadese Avril Lavigne all’Anfiteatro Romano?”.

L’alchimia delle parole

Sono a 1300 metri, in una baita su un tramonto che combatte con le nuvole e profuma di pioggia delicata.

Il profumo acre del camino mi riporta ad atmosfere invernali, ai paesini illibati della Sardegna dove ancora la modernità non è arrivata, dove si respira l’ancestrale infanzia e il ricamo dei ricordi.

Il presente ci ha rubato le stagioni, il caro vecchio inverno, e ritrovarlo qui d’estate, in Trentino è davvero curioso.

Perdo il conto dei giorni e delle ore.Poi ho un pensiero nell’aria. Mesi fa un amico, storico professore di filosofia del Pacinotti, Ettore Martinez, con cui ho preso caffè ricchi di idee e riflessioni esistenziali, mi ha dato una lettura perfetta delle delusioni e delle sconfitte: “Nick, tu stai elaborando un lutto! Passerà”.

Quella frase è stata geniale. Me la son portata legata come i miei braccialetti al polso e mi ha aiutato a superare le amarezze e crisi che avvolgono una vita come la mia, di sfide cruciali e di finali di Champions.

Da quando è morto papà, oltre dieci anni fa, non ho avuto più nessuno che mi risolvesse gli intrecci: ho sulle spalle tutto io.

Le parole e le frasi sono alchimie.

Il prof, con quella, mi ha aiutato a superare i passaggi sfortunati, le cadute e gli amici e le amiche che mi hanno trattato male. I tanti fallimenti della mia vita (sì, ne ho avuto tanti).

Mi ha dato una chiave di lettura di tante cose per convivere e superare il dolore.

Ancora grazie prof.

Aeroporti, caos, sospensione e creatività

Aeroporti, luoghi sospesi ma soprattutto in questo periodo coacervi di umanità ansiogena e rissosa, da cui nella vita quotidiana stiamo alla larga: tutti devono partire prima, tutti devono superare, tutti devono prevalere, come nella classica e competizione sociale.

Poi ci siamo noi, viaggiatori solitari un po’ strani, silenziosi e sempre in un angolo.

Con il nostro computer e le cuffiette con playlist di King of Convenience o Gotan Project osserviamo quel mondo strano che è maggioranza nel paese.

Quel mondo che a sua volta ci osserva e ci vede strani e reietti: chi saranno mai questi oscuri personaggi che non ridono sguaiatamente come noi, non ruttano birre, non mangiano oliosi panino grandi come un pacco amazon, non hanno buste piene di acquisti nel free shop?

Eppure questi posti così caotici, sono tesoro di ispirazione e creatività. Nel caos di urla, lamenti, allarmi, trolley che sbattono, addii al nubilato, voci al microfono di bimbi e coppie che esplodono, tante idee passano veloci. Guai a perderle.

Camus e lo Straniero

“Oggi è morta la mamma. O forse ieri, non so”. Questo è l’ incipit dello “Straniero”, il romanzo che Albert Camus scrisse nel 1942 e avrebbe contribuito a portarlo tra i big della letteratura mondiale del Novecento.

Da questi primi capitoli che sto leggendo, è un romanzo spigoloso e asciutto, che non dà spazio alle emozioni, quasi cronachistico. Una “dichiarazione al mondo” di Camus che perlustra le asperità della vita di noi tutti.

Faccio tesoro di qualche passaggio della sua vita artistica direttamente dal discorso alla consegna del Premio Nobel: “i veri artisti non disprezzano nulla e si sforzano di comprendere invece di giudicare: e se essi hanno un partito da prendere in questo mondo, non può essere altro che quello di una società in cui, secondo il gran motto di Nietzsche, non regnerà più il giudice, ma il creatore, sia esso lavoratore o intellettuale.

La missione dello scrittore è fatta ad un tempo di difficili doveri; per definizione, non può mettersi oggi al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di quelli che la subiscono”.